Data: 12.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: La canzone della misericordia

La canzone della misericordia.

Quando Tiziano Guerini mi chiamò a commentare una delle canzoni di Fabrizio De André per l'ultima serata del Caffè Filosofico prima della pausa estiva, Preghiera in Gennaio fu una scelta obbligata. Non avrei mai potuto intervenire sugli altri testi, che mi risultano sgradevoli alla lettura, sebbene riconosca la grandezza poetica. La poesia può essere un veicolo di espressione filosofica, e per De André di fatto lo è, specie quando verte su temi così gravi come il suicidio per cui il silenzio sarebbe forse l'unico atteggiamento intellettuale degno - accanto, appunto, alla preghiera. Va da sé che la poesia di De André è una preghiera sui generis, che ha però il pregio di cogliere un frammento di verità che in ultima analisi anche un cristiano può condividere.

La canzone, composta dopo il suicidio di Luigi Tenco nel 1967, evita sia le posizioni dissacranti che si ascoltano altrove dal De André "religioso", sia altri filosofemi che pure sarebbero possibili meditando sul suicidio. Atto estremo sotto ogni prospettiva, togliersi la vita per scelta deliberata è l'opzione autocontraddittoria dell'uomo che porta in sé la libertà come essenza del proprio essere. L'essere umano è libero, anche di negarsi; e come tutti i casi in cui si annida un autoriferimento, pare di cogliere un assurdo logico nel violare il quinto Comandamento in riferimento a se stessi, se nel contempo non lo si può più confessare. Ogni peccato è commesso, infatti, se lo si percepisce in piena vertenza e deliberato consenso, ma anche, sempre, con la certezza che la misericordia di Dio, previa sincero pentimento, non manca mai. Privandosi della vita, la riconciliazione in questi termini non è possibile. D'altra parte, il suicidio in quanto tale non è certamente giustificabile - fatte salve circostanze anche fortemente attenuanti - non appena si ricorda che la vita, a rigore, appartiene a Dio, non alla persona che l'ha ricevuta in dono. Questo per un credente che ama un po' troppo le verità logiche.

Filosofi e sociologi, a parere di chi scrive, hanno solo scalfito il problema, anche se devo ammettere di non aver indagato oltre le quattro nozioni che un appassionato può ricordare. Quanto può dire la medicina è certamente rilevante, ma qui a contare è la prospettiva esistenziale in un senso che va al di là sia dei meccanismi di azione degli psicofarmaci, sia di quanto può elucubrare la psicanalisi (verso la quale chi scrive nutre severe perplessità, se non vago disprezzo). Se nella storia della filosofia il suicidio è generalmente condannato (con l'unica eccezione rilevante degli stoici), quello che possono pensare uno Schopenhauer (suicidio come atto che in realtà ancora tradisce volontà di vivere, ma un'altra vita), o un Durkheim con le sue catalogazioni, resta tutto sommato alla superficie. La tragedia del singolo che non vede altra strada possibile che uccidersi è qualcosa che trascende qualunque speculazione, per lasciare spazio solo al silenzio, alla preghiera, alla pietà. Ecco che allora, quando De André canta

Venite in Paradiso
Là dove vado anch'io
Perché non c'è l'inferno
Nel mondo del buon Dio

non si può non provare una speranza che è certezza della misericordia, anche di quel figlio disperato che non ha potuto, non ha saputo trovare una via d'uscita, schiacciato dal male, dalla sofferenza, dalla solitudine, dal dolore. Poco importa che poi il nostro canti anche l'inferno esiste solo - per chi ne ha paura. Un cristiano sa che purtroppo non è così, ma poco importa nell'economia della poesia.
Mi piace concludere immaginando il suicida, dinanzi al Volto del Padre, che vede finalmente la luce che il suo dolore gli aveva impedito di vedere, sperimentando l'amore a cui innumerevoli suoi fratelli anelano meditando lo stesso tragico gesto. Se potessero tornare, per dire loro di non farlo.

Meglio di lui nessuno
Mai Ti potrà indicare
Gli errori di noi tutti
Che puoi e vuoi salvare

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