La relazione di Claudio Ceravolo sul pensiero di Massimo Cacciari è così vasta che non posso pretendere di commentarne ogni aspetto. Solo due.
Uno è quello della tolleranza.
Cacciari dice di considerare tolleranza “un termine orrendo”, poiché presuppone un atteggiamento del tipo “ti sopporto perché mi sento superiore a te. La tolleranza – continua Cacciari – è l’idea madre di tutte le intolleranze, è un’idea impotente”. Ancora più chiaramente “tolleranza è solo il nome che diamo alla regolazione pacifica dell’equilibrio fra la cultura e le tradizioni di una maggioranza e quelle delle minoranze. Non è una virtù, è uno strumento politico. Sancisce una relazione di potere, un rapporto di supremazia fra chi tollera e chi è tollerato”. Precisazioni espresse nel maggio dello scorso anno, in occasione della rassegna Nel segno della parola, a cura dell’Università di Bologna. In questa sede venne fra l’altro presentato il dialogo del 384 d. C. fra Simmaco, prefetto di Roma e uno degli ultimi pensatori pagani, e Ambrogio, primo dei grandi vescovi cristiani. Il confronto fra i due, recitato da Carlo Rivolta e tradotto dal latino da Nuvola de Capua, porta il titolo Dissimulatio, sottotitolo “Pagani e cristiani: la disputa sulla tolleranza”. Sì: dissimulatio, ossia far finta di non accorgersi, è la parola latina che Simmaco utilizza per chiedere all’imperatore Valentiniano II di ripristinare nell’aula del senato l’altare dedicato alla dea Vittoria, simbolo della religione pagana. Ambrogio ribatte che la dissimulatio è incompatibile con la fede. “Simmaco – commenta il filologo Ivano Dionigi, promotore della rassegna insieme a Massimo Cacciari – è uomo della doxa, Ambrogio uomo del dogma; il primo rivolto al passato, il secondo al futuro; perdente Simmaco, vincitore Ambrogio”. Dunque la tolleranza non può essere chiudere un occhio, non può consistere nell’ignorare e nel rimanere indifferenti. Per lo meno se si crede che la verità sia una sola… Gli illuministi, secondo Cacciari, non migliorano la sorte della tolleranza, poiché il loro pensiero universalista “ritiene i propri principi validi per tutti gli uomini”, quindi anche la loro tolleranza implica la presunzione di superiorità. “Non si tollerano mai i valori, ma solo gli errori altrui. E’ tollerante chi, sicuro delle proprie convinzioni, anziché sopprimere quelli che credono nei valori sbagliati, attende benevolmente che riconoscano il loro errore”. E allora? Dobbiamo gettar via la tolleranza? E poi: è giusto essere tolleranti con gli intolleranti, come si domandava (rispondendo negativamente) un giovane studioso nel suo intervento al Caffè filosofico del 14 febbraio? No, sostiene ancora Cacciari: “nazisti e terroristi ti vengono a cercare per ammazzarti. La tolleranza è priva di senso in un contesto di guerra o anche solo di inimicizia. Può maturare solo in un clima di mediazione.” Ma è chiaro che in questo modo si presuppone proprio ciò che si vorrebbe costruire. Dunque da capo: abbiamo bisogno di qualcosa di meglio della tolleranza. Che c’è di meglio della tolleranza? Ancora Cacciari: “tante cose: conoscenza, curiosità, interesse, amore”. Credo che abbia ragione, anche se poi non è facile mettere in pratica tali atteggiamenti. Soprattutto interesse e amore. Ma forse è possibile aprire una strada, non necessariamente o esclusivamente cristiana, di amore e di interesse per l’altro: una strada filosofica.
E passo al secondo aspetto: l’altro, lo straniero, il diverso.
Ricordo che quando, molti anni fa, lessi per la prima volta le frasi di Marx a proposito del rapporto uomo-donna, ebbi qualche difficoltà a comprenderle pienamente. “Il rapporto immediato, naturale, necessario, dell’uomo all’uomo – dice Marx nei Manoscritti – è il rapporto dell’uomo alla donna”. Con un linguaggio fortemente hegeliano, Marx continua poi ad analizzare il rapporto dell’uomo con gli altri uomini e con la natura, notando che “il rapporto dell’uomo alla donna è il più naturale rapporto dell’uomo all’uomo”. In un groviglio di frasi che spesso hanno l’apparenza di giochi di parole, Marx arriva infine a dire ciò che oggi avverto come l’idea più vera e importante: “da questo rapporto [dell’uomo con la donna] si può giudicare ogni grado di civiltà dell’uomo”. Adesso sì che ci intendiamo! O forse sono i drammatici eventi degli ultimi anni che hanno offerto a queste righe una chiarissima ed efficace chiave interpretativa? Al di là di qualunque forma di femminismo, il significato di quelle frasi risulta evidente. Non c’è civiltà senza interesse, amore, integrazione, rispetto, bisogno reciproco e riconoscimento reciproco uomo-donna. Come notava Nuvola nel suo intervento, è qui che si gioca il senso del nostro discorso sullo straniero e il diverso: nel modo in cui sentiamo il bisogno l’uno dell’altro, a partire da uomo e donna. Curiosità, conoscenza, non tolleranza, o almeno non solo. Sentire l’altro come essere umano che condivide la nostra condizione di persona che si interroga sulla bellezza, sul bene, sul vero, ma anche sull’infelicità, sul dolore e sulla morte. Pensare insieme, provare sentimenti di compassione, di affetto, di desiderio, di rimpianto, e soprattutto continuare a cercare qualcosa di più e di meglio del mondo che ci è stato consegnato.
Data: 24.06.2013