Data: 01.07.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Intervento

Mi pare che, benché Popper giudichi la teoria delle idee propria dell’empirismo inglese come “la dottrina più terribilmente fuorviante che sia emersa dal dualismo cartesiano”, la domanda che egli si pone “l’Io ha un cervello o l’Io è un cervello?”, assomigli a quella di Hume “l’Io ha percezioni o l’Io è un Commonwealth di percezioni?”. E’ vero che Popper intende interrogarsi sul rapporto mente/cervello, mentre Hume si interroga sulla possibilità di sostanzializzare le attività mentali; ed è anche vero che mentre Popper risponde che “l’Io ha un cervello”, Hume risponde che “l’Io è un Commonwealth di percezioni”.

Però io vorrei capire esattamente

in che cosa sono cambiati i termini delle domande da Hume, a Popper, fino a noi

che influenza ha su questi mutamenti l’ampio dominio della realtà virtuale, e più precisamente il fatto che le tecnologie digitali sembrano condurre verso un’evanescenza del corpo.

A proposito di questo secondo interrogativo, è stato detto che la progressiva immaterializzazione del corpo ha sconvolto il tradizionale rapporto fra corpo e identità. La comunicazione telematica rende possibile l’assunzione di identità multiple, fittizie: vere e proprie polidentità telematiche, che non mi sembrano rispondere ai caratteri etici e antropologici della polidentità di Morin, ma piuttosto fuorviare ogni possibilità di reciproco riconoscimento.

Vorrei sottolineare il fatto che il dato primario dell’identificazione dell’individuo, fin da quando veniamo al mondo, è il sesso, come è confermato non solo dall’annuncio “maschio” o “femmina” dell’ostetrica o del ginecologo al momento della nascita, ma anche da ciò che accade nei giochi di tipo MUD (Multi User Dungeon o Dimension = prigione sotterranea per più utenti, dove si svolgono giochi di ruolo in cui ciascuno crea un proprio nome, corpo e identità), in cui innanzitutto il sesso è contraffatto: io uomo posso diventare donna, io donna uomo, oppure posso essere neutro, o “spivak” (=genere plurale). Ciò significa che continuiamo a credere di poterci identificare innanzitutto per genere, se in una situazione ludica di trasgressione il sesso è il primo a venire stravolto.

Personalmente trovo più convincente la teoria di Popper: l’Io ha un cervello, anche se questa teoria non aiuta a spiegare che ne è del cosiddetto Io nei malati, ad esempio, di Alzheimer, i quali, se interpreto correttamente, soffrono di una progressiva degenerazione di funzioni cerebrali, e proprio per questo smarriscono una serie di funzioni mentali. Ma dal momento che l’affermazione di Popper non porta a concepire l’Io come sostanza pensante, forse è possibile conciliare questo Io non sostanzialistico con il Commonwealth di Hume: la mente come attività organizzata, funzione, l’uomo come amalgama di sotto-persone di Dennett. Più che il simbolo della maschera di tipo letterario (pirandelliano), mi sembra confacente l’immagine della cura e conoscenza di sé come cura e conoscenza dell’anima di cui parla il divino Platone. Forse la parola anima ha assunto per noi significati eterogenei rispetto a quello platonico, ma sicuramente tutti comprendiamo ciò che Platone intende là dove afferma “quando tu e io parliamo fra di noi, servendoci di parole, sono le nostre anime che parlano fra di loro”. Anima, intelligenza, mente, non corpo o cervello: il corpo (cervello) è lo strumento dell’anima (mente), come la cetra per il citarista. Forse poi Platone aveva capito un’altra verità: che in una remota lontananza fuori del tempo, dove passato e futuro si confondono, così come mitologia e tecnologia, noi non siamo solo uomini o donne, ma uomini-uomini, donne-donne e uomini-donne: androgino o spivak. Il corpo ha un sesso, l’anima ne ha molti.

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