UNA FILOSOFIA FEMMINISTA PER VALORIZZARE LE DIFFERENZE E REALIZZARE LA PARI DIGNITÀ - DALLA TESI DI LAUREA DI PAOLA VAILATI

08.03.2010 21:00

 

Tra i cittadini delle societa' occidentali contemporanee non e' pienamente riscontrabile l'uguaglianza su cui si fonda il concetto di democrazia.

Da questa constatazione discendono valutazioni che, ispirandosi alle opere di Luce Irigaray, Judith Butler ed Hannah Arendt, si propongono di elaborare i principi per una teoria filosofica basata sulla valorizzazione delle differenze tra le identità e sulla garanzia di pari dignità per le stesse, volta al miglioramento della realtà socio-politica attuale. L’analisi filosofica proposta consiste nell'affermare che se si rispettasse e valorizzasse la prima tra le diversità dei soggetti -e cioè quella ontologica- potrebbe risultare più semplice accogliere tutte quelle differenze -razziali, psicologiche, sociali e culturali- tipiche del mondo globalizzato in cui viviamo. Il “medesimo” non esiste e non può essere assunto come norma, pena un allontanamento della filosofia dalla realtà -ontologicamente doppia- e una non realizzazione della felicità nella storia.

 

 

 

Introduzione

Oggi e' la giornata internazionale della donna. Giornata simbolo di conquista e difesa dei diritti femminili. Ricorrenza dalle tinte quasi leggendarie, che non sempre si sa collegare coi tragici fatti storici che hanno portato alla sua istituzione. Nell'immaginario collettivo l'8 Marzo vuol dire mimosa, non operaie tessili in sciopero o fabbriche in fiamme e donne carbonizzate.

Oggi, in tutto il mondo, la donna viene celebrata, al punto da chiamare comunemente l'8 Marzo “la festa della donna”, tendendo cosi' a dimenticare l'originario connotato di lotta e protesta della giornata, di cui a parer mio le donne contemporanee hanno ancora bisogno per contribuire al raggiungimento della Felicita' nella Storia, come Irigaray chiamerebbe la realizzazione delle pari opportunità.

L'obiettivo che mi propongo stasera e' sia quello di illustrare alcune idee della filosofia di tre pensatrici, non rinunciando cosi' all'esaltazione del soggetto femminile tipica della ricorrenza di oggi, sia quello di presentare l'ipotesi che un connubio tra alcuni aspetti delle loro teorie potrebbe perpetuare la ricerca dell'uguaglianza tra gli individui, non dimenticando perciò l'obiettivo di migliorare la condizione umana insito nell'istituzione della Giornata Internazionale della Donna.

La mia ricerca filosofica puo' essere classificata come femminista ed occidentale per due motivi: due tra le studiose di cui analizzo il pensiero, e cioè Luce Irigaray e Judith Butler, vengono comunemente etichettate come teoriche femministe occidentali, e perché anche mio lavoro, in linea con gli obiettivi del femminismo, ha come finalità il proporre una definizione di identità alternativa a quella della tradizione, da cui far conseguire una diversa realtà sociale.

Luce Irigaray e' filosofa, psicanalista e linguista belga, al momento, dati i suoi 78 anni, affiliata all'università di Liverpool, ma più impegnata in conferenze che nell'insegnamento, benché abbia sia stata docente all'università di Parigi e di Rotterdam.

Judith Butler invece e' una filosofa post-strutturalista americana del 1956, docente all'università di Berkeley, California, interessata anche di etica e di queer theory: teoria che influenza il suo pensare politico e filosofico.

Hannah Arendt, filosofa tedesco-americana influente nel pensiero politico del secolo scorso, invece, pur non essendo una filosofa categorizzabile come femminista, e' stata spesso studiata dalle pensatrici (in prevalenza americane) interessate allo studio di genere, che o ne hanno criticato il pensiero o, come nel mio caso, hanno utilizzato alcuni aspetti della sua teoria politica all'interno di un discorso volto a promuovere pluralismo e partecipazione.

La filosofia femminista, cosi' come altre correnti di pensiero continentale, viene spesso definita filosofia della realtà, poiché ha come punto di partenza, come motore di pensiero, la condizione esistente e come finalità teoretica l'elaborazione di una critica della stessa ed un modello alternativo.

Altra caratteristica della filosofia femminista e' l'aver superato le posizioni cartesiane ed il promuovere una metafisica incarnata, cioè il non considerare la mente come staccata dal corpo, ilcogito dalla res estensa, ma considerare la coscienza come incarnata. Di conseguenza, il pensiero femminista ha promosso un proseguimento della ricerca fenomenologia, secondo cui la verità e' relativa ed il soggetto limitato al proprio contesto esistenziale, caratterizzato da una particolare condizione economica, culturale ed appunto sessuale.

Il soggetto e' integrato in una realtà non universalizzabile. In sintesi: il soggetto non e' mai definito o definibile completamente, il linguaggio non e' mai neutro e la verità sempre relativa.

Detto con le parole della Irigaray: “Siamo figli(e) della carne ma anche della parola. Siamo natura, ma anche cultura.” Altra caratteristica della filosofia femminista, in linea con il movimento dal quale si e' sviluppata, e' che il personale sia politico, e quindi da considerarsi nello studio della societa'.

La mia ricerca parte dalla constatazione dell'esistenza della differenza, e dall'analisi della problematicità che il diverso crea nella societa' contemporanea.

Viviamo in un mondo globalizzato, caratterizzato dalla -talvolta forzata- convivenza tra differenti culture. Convivenza che sovente degenera in violenza ed ostentata affermazione da parte della cultura dominante della propria identità, definita come unica, unitaria stabile ed immutabile. Da qui deriva una definizione di ruoli fra cultura dominante e culture dominate, e l'esclusione di quest'ultime da alcune sfere della vita socio-politica. Un diverso approccio nei confronti della differenza potrebbe migliorare il clima di ostilità che si respira nel mondo contemporaneo, mondo da sempre caratterizzato da flussi migratori, che fin ora nessuna respinzione e' riuscita a fermare.

Da una prospettiva femminista critica nei confronti dell'atteggiamento contemporaneo verso la minoranza (dove quando parlo di minoranza mi riferisco a tutti i soggetti che, citando Irigaray, possono essere definiti come minorenni sociali) reputo una sfida interessante la teorizzazione del come promuovere, almeno a livello teorico, il riconoscimento del diverso, dove per diverso si intende cio' che differisce da quanto assunto come norma. La norma e' appunto il soggetto unico, soggetto che solitamente e convenzionalmente nelle societa' occidentali viene da sempre indicato come maschile. Esempio sono alcune tra le espressioni che si riferiscono a lavori di prestigio, come: il medico, che nella sua variante diviene il dottore (sempre maschile, dunque), l'avvocato, l'ingegnere, il sindaco. Attualmente si tenta di integrare il femminile in questo modello di nomi precostituito, formulando cosi' nomenclature piuttosto fastidiose all'udito, tra i cui: l'ingegnera, l'avvocatessa, la sindaca.

Parte Centrale

LUCE IRIGARAY

Luce Irigaray, osservando prima di me questa convenzione, attribuisce alla filosofia tradizionale la causa della struttura sociale attuale.

Dai filosofi greci antichi ai francesi contemporanei l'ontologia e' infatti basata sull'essere uno, e quest'essenza umana e' sempre stata descritta come maschile. Riprendendo Simone de Beauvoir, Irigaray giustamente sottolinea che alla donna spazio viene dato, ma come negativo, come secondo sesso, ed associato a passività, debolezza, notte. La donna e' la materia opposta alla forma nella filosofia d'Aristotele. Insomma, il femminile in filosofia, fino allo svilupparsi del pensiero femminista, e' sempre stato collegato ad un modello di inferiorità. Da qui l'utilizzo, perpetuatosi fino ai nostri giorni, di espressioni dispregiative come “non fare la femminuccia”, traducibile più o meno in tutte le lingue occidentali, “e' una donnetta”, ed il metaforizzare come femminile il cosi' detto Sud del mondo.

In sintesi: il soggetto perdente e' il soggetto femminile. Per dare un ultimo esempio, anche le vignette satiriche spesso ritraggono come effeminati i personaggi che vogliono ridicolizzare, con lunghe ciglia e labbra rossastre.

Irigaray in tutti i suoi libri, e specialmente in Speculum., Etica della Differenza Sessuale, La Democrazia comincia a Due, propone una diversa antropologia filosofica, basata sull'ontologia dell'essere essenzialmente due, e non uno. Per la filosofa l'ontologia e' duale non e' mai ipseita', ossia non devo ricercare nell'altro la mia stessa essenza, poiché l'essere umano nasce nella diversità, e solamente riconoscendo l'altro in essa posso conoscere l'io.

Adorando quest'ontologia, l'ho utilizzata come punto di partenza per il proseguo della mia ricerca, che si muove più su un piano di filosofia politica. Tuttavia, senza una decostruzione del modello ontologico dominante non e' possibile una decostruzione del modello politico. Senza un'antropologia filosofica alternativa, senza una nuova definizione di qual e' l'essenza dell'essere umano non e' possibile un cambiamento sociale. Infatti, la politica esula dai singoli soggetti che la determinano, ma non puo' trascenderli.

Quindi proseguo il mio discorso soffermandomi sulla presentazione del soggetto irigariano, perché soltanto operando sui concetti filosofici possiamo cambiare la societa' e la situazione esistente.

A livello mondiale Luce Irigaray riconosce la societa' sempre costituita da due identità, quella maschile e quella femminile, definite sulla base di differenze naturali e culturali. Identità che danno origine e che vengono anche create con lo scopo di differenziare in generi i soggetti che fanno parte di quella determinata realtà sociale. In Tutto il mondo siamo sempre in due, dice il titolo di un suo libro. E a parere della Irigaray se la societa' garantisse riconoscimento alla diversita' sessuata delle identita' potrebbe piu' facilmente accettare tutte le altre diversita'.

“Il naturale è costituito almeno di due: maschile e femminile. Tutte le speculazioni sul superamento del naturale nell’universale dimenticano che la natura non è una. Per andare al di là (...) conviene partire dalla realtà: la realtà è due (un due che implica a sua volta delle differenze secondarie:...). Si è presentato l’universale come uno, a partire da uno. Ma questo uno non esiste.”

Le due identita' diversamente sessuate possono incontrarsi e riconoscersi solo nella loro irriducibilita' ed inconoscibilita'. Posso acceder all'altro, il quale pero' possiede una dimensione di mistero poiche' non e' medesimo a me, e che posso conoscere ma solamente e soprattutto fino ai limiti del suo essere irriducibile alla mia identita'. L'alterita' dell'altro e' irriducibile. La mancanza di presa di coscienza delle deiversita' soggettive e della loro educazione porta i soggetti a deludersi vicendevolmente, poiche' in ricerca di quando umanamente e' impossibile: l'uguaglianza ontologica.

“Per mancanza di una formazione al rispetto della differenza sessuata, cioè di un altro differentemente sessuato, educare al <<rispetto dell’altro>> rimane spesso un imperativo morale piuttosto superficiale e senza un’applicazione reale”

Nel mondo é possibile iniziare, attraverso questa variazione dell’attitudine politica nei confronti dell’ontologia femminile, un percorso sociale in cui ogni tipo di “alterità”, di “negativo” rispetto a ciò che nella storia del pensiero occidentale è da sempre stato considerato come l’io, venga vista come fonte di ricchezza per la comunità, assumendo così una nuova connotazione: positiva. All'altro deve essere riconosciuta non uguaglianza, ma equivalenza: concetto che ne rispetta la differenza ontologica.

JUDITH BUTLER

Partendo dal pensiero di Luce Irigaray, Judith Butler sottolinea il merito dello stesso d'aver dato corporeità al soggetto femminile. Altri filosofi francesi, infatti, quali Deleuze e Deridda, avevano identificato il limite della filosofia tradizionale occidentale nel presentare l'essere umano come uno, metafisicamente, tuttavia, moltiplicando il soggetto in identità molteplice od in soggetto nomade, avevano trasceso, posto meno attenzione, sulla corporeità, sulla fisicità dell'altro come aspetto imprescindibile per comprenderne la verità. Tuttavia, a parere della Butler, per proseguire il discorso irigariano occorre modificare i ruoli definiti dalla divisione in due che il genere fa dei soggetti.

In altre parole, a parere di Butler, pur riconoscendo una diversità naturale tra uomo e donna, che consente il mantenimento di una serie di diritti acquisiti dalla donna (diritto alla maternità, per esempio), bisogna de-costruire la differenza culturale che e' stata applicata storicamente ai generi. Per la Butler la donna puo' raggiungere equivalenza con l'uomo unicamente partendo da unadecostruzione della societa' attuale. Per questo in Gender Truble parla di genere comeperformativity come parodia in cui i soggetti sono portati a recitare il ruolo che la norma ha imposto loro, non accorgendosi delle diverse e più svariate possibilità che la realtà dona ai soggetti.

Il mettere in scena il nostro ruolo nella societa' per la filosofa, che in questo somiglia molto a Foucault, non e' superabile. Ma e' modificabile. Noi non saremo mai soggetti liberi dalla categorizzazione di genere, poiché su essa si basa la nostra societa'. Possiamo pero' giocare con le tradizioni. Mischiare il passato ed il futuro.

Seguendo questo pensiero, per fare un esempio concreto, una donna velata in minigonna non sarebbe una contraddizione in termini, ma potrebbe essere esempio di una ridicolizzazione di due forme di sottomissione e schiavitù femminile. Potrebbe testimoniare la capacita' femminile di costruirsi all'interno di schemi predefiniti.

“Otteniamo riconoscimento sia attraverso il nostro corpo (ossia la forma che abitiamo nel mondo) sia attraverso le nostre attività (ossia le forme che noi diamo al mondo), tanto da mostrare l'importante connessione tra soggetto, lavoro e comunità (...). Soggetti autentici possono svilupparsi solamente in comunità che provvedono al riconoscimento reciproco, perché noi non ci conosciamo solo attraverso le nostre attività nel mondo, ma attraverso lo sguardo percettivo profondo dell'altro, che ci conferma nella nostra differenza.”

Differenza rispetto all'identità di diverso genere, cosi' come differenza rispetto al modo che un soggetto del nostro stesso sesso ha di rappresentare il suo personale essere nel mondo. Il suo modo di recitare nel teatro mondo. Cio' a cui ambisce Judith Butler e' una destabilizzazione delle categorie di soggetto, norma, delle strutture discorsive proprie del mondo occidentale contemporaneo, esponendo i limiti delle strutture egemoniche, per creare delle ri-significazioni radicali ed alternative.

In: Giving an Account of Oneself l'autrice sottolinea ulteriormente la dipendenza che il soggetto ha dall'altro affermando che:

“Potrebbe essere impossibile parlare della mia coscienza senza commettere errori, perché la coscienza non e' di mio possesso, ma piuttosto cio' che non possiedo, che mi viene dato dall'altro, con cui sono in rapporto sin dalla nascita. La coscienza mi viene data insieme al nome. Nome che gia' determina la mia connotazione sessuale e parte di cio' che e' atteso a livello sociale dalla mia coscienza. La forma di resistenza che il soggetto puo' esercitare nei confronti dello status quo e' compiere una parodia di quanto imposto, ed accogliere la parodia che l'altro, attraverso cui mi conosco, rappresenta.”

Rappresentare la propria unicità nel genere puo' esser fatto solo nel momento di relazione con l'altro, in una sfera politica come quella che descrive Hannah Arendt.

HANNAH ARENDT

Senza una sfera pubblica aperta e deliberativa ci sono infatti poche possibilità di superare i confini del proprio genere, cosi' come della propria comunità culturale. In poche parole, le possibilità di superare la limitatezza umana sono ridotte al minimo se viene negato un momento partecipativo, in cui la differenza puo' svilupparsi e manifestarsi come pluralismo, non come semplice negazione della norma. Creare solidarietà e comprensione tra diversi (poiché si e' sempre diversi rispetto all'altro, che esiste nella realtà umana -come abbiam potuto vedere- sin da un livello ontologico) e' possibile attraverso l'agire arendtiano, ossia attraverso la funzione politica, che viene definita la più aulica tra quelle in cui l'essere umano puo' impegnarsi, perché la donna e l'uomo, a parere della filosofa tedesca, sono animali sociali.

Nel 1958, in The Human Condition, testo tradotto in italiano col titolo Vita Activa, Hannah Arendt afferma che si ha vera azione politica quando si: “agisce in concerto”. E per agire in concerto la pluralità e prima ancora il riconoscimento delle diverse voci e' imprescindibile. L'azione dell'altro e' una condizione necessaria ed indispensabile perché l'io possa compiere a sua volta un'azione, o provare uno stato d'animo (questo ancora perché, appunto, il rapporto interpersonale non necessariamente istituzionalizzato e' gia' politico).

Le interazioni culturali tipiche dell'Europa contemporanea potrebbero essere concepite e trasformate in incontri, piuttosto che ridotte a conflitti tra identità essenzializzate se ci si interessasse alla ricchezza che la loro diversità puo' dare, e si abbracciasse la tesi per cui la rappresentazione di cio' che tradizionalmente si e' sempre stati puo' subite cambiamenti, non essendo la distinzione di ruoli tra individui e culture statica e necessariamente da perpetuarsi.

Finché le donne e le culture dominate rimarranno in una condizione di minoranza sociale e non avranno le stesse concrete opportunità di espressione e realizzazione del Se' che l'uomo della cultura dominante possiede, la loro peculiare natura non potrà essere completamente rappresentata, spiegata e soddisfatta. Quando poi si considerano i soggetti femminili delle societa' dominate la stessa possibilità di rappresentazione assume connotati dubbi. Tutto questo comporta un impoverimento della qualità politica, oltre ed un incremento delle difficoltà ad ascoltarsi ed a capirsi fra “diversi”.

“(...) Piegare le razze, i sessi, le generazioni a un modello unico di identità, di cultura, di civiltà significa sottometterli ad un ordine che non rispetta le loro differenze. Sarebbe possibile allora parlare di una nuova maniera di colonizzare, di evangelizzare, di imporre una tutela di patriarca ricco, non soltanto a livello del denaro ma anche della civilizzazione. La comunità allargata si svilupperebbe a partire dalla compassione dei più ricchi, anche culturalmente, nei confronti dei più poveri, verso una condivisione dei loro beni. Ma non sono sicura che il più povero accetterebbe un tale aiuto e non sono sicura che un tale aiuto favorisca la sua salvaguardia, la sua crescita. In ogni modo, questo paternalismo non assicura una convivenza orizzontale fra tutti e tutte.”

Se l'attenzione venisse posta più sull'interazione che avviene tra l'io ed il tu, tra la cultura dominante e quella dominata, le differenze (sia su un piano privato che su un piano pubblico) non farebbero altro che aumentare il potere umano. Dove utilizzo la parola potere come Arendt fa, cioè potere e':“cio' che le persone creano agendo in concerto e discutendo le loro diverse (per motivi fenomenologici) visioni del mondo, che e' cio' che hanno in comune e da cui non possono trascendere. Il potere e' dunque “potere-con”, non “potere-su”.

Conclusione

Concludendo con un sillogismo poco canonico e molto femminista, se la natura umana e' caratterizzata dalla differenza. E l'azione collettiva e' l'espressione più alta della natura umana, allora l'azione collettiva e' basata sulla differenza.

Paola Vailati

 

 

Dibattito

Data: 18.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Né maschile né femminile

“Siamo natura, ma anche cultura”, dice Luce Irigaray. E ciò che vale per la donna vale anche per l’uomo. Non è forse anche l’uomo sia natura che cultura? O l’uomo pretende di distinguersi dagli altri animali per un’esclusiva essenza culturale?

“La donna come preteso essere naturale è il prodotto della storia che la snatura”, dice più cripticamente Adorno. E questo vale solo per la donna definita, o piuttosto delimitata nella definizione, da una cultura esclusivamente maschile. Che cosa significa infatti l’aforisma adorniano? Innanzitutto che la donna è, come l’uomo, prodotto della storia, prodotto culturale. Ma alla donna, a differenza da ciò che è accaduto all’uomo, è stata negata la natura sua propria. E tuttavia esiste o non esiste una natura della donna, e, se sì, quale sarebbe questa cosiddetta natura della donna, dal momento che il suo “essere naturale” viene dichiarato (da Adorno) preteso, ossia presunto, ipotizzato senza dimostrazione?

La donna ha una natura esattamente come l’uomo, ossia, per dirla con Pico della Mirandola, la sua natura consiste nell’essere un’ “opera di natura indefinita”, né celeste né terrena, né mortale né immortale, capace di scolpirsi in quella forma che preferisce, di “degenerare in quelle inferiori che sono brute” oppure rigenerarsi “nelle superiori che sono divine” (De hominis dignitate). È forse mai venuto in mente a qualcuno che Pico, tessendo le lodi della dignità dell’uomo, ne volesse escludere la donna? Forse sì, ma in tempi lontani, tanto che oggi, nella civiltà occidentale oggetto delle acute analisi della relatrice Paola Vailati, sarebbe ridicolo solo pensarlo.

Eppure alla donna è stato assegnato un ruolo circoscritto: quello di rappresentare la natura, il che significa l’assenza di cultura, l’assenza di storicità, quasi che la donna rimanesse eternamente fissa, condannata ad un’essenza perenne di cuore, istinto, intuito, magari senso del finito e del materialismo, in contrapposizione all’uomo, visto come testa, intelligenza, logica, magari sede dell’idealismo. E non importa che tali affermazioni provengano non dal solito filosofo misogino come Schopenhauer o Kierkegaard, bensì da un ben intenzionato Feuerbach, che aggiunge, affinché sia chiaro il suo intento di rivalutazione del principio femminile, che “il cuore è rivoluzionario, la testa riformista. La testa è statica, il cuore dinamico”, per poi concludere che un fanciullo potrebbe avere un buon ingenium philosophicum se figlio di madre francese e padre tedesco, dotato quindi di temperamento gallico-germanicum (Tesi provvisorie per una riforma della filosofia).

Ma perché dobbiamo a tutti i costi autoingabbiarci in simili schemi? Ben venga piuttosto l’animale sociale di Hannah Arendt, con l’invito a tutti, uomini e donne, a riflettere, a guardarsi dentro, per conoscere se stessi, al modo di Socrate, come antidoto al totalitarismo. L’ “agire di concerto” crea davvero quella sinfonia di cui parlava don Agostino Cantoni, quando osservava che “la riflessione filosofica africana deve recuperare il senso del femminile nella storia: il femminile primordiale. La femminilità primordiale è sinfonia, armonia tra femminile e maschile, equilibrio raggiunto, che è di per sé famiglia”. Ricordi, Paola? Don Agostino il 17 dicembre 2002, circondato da te e dai tuoi compagni di classe, ci spiegava queste cose.

Forse anche questa è pretesa, è presunzione: che cioè il femminile sia armonia, sintesi, a differenza del maschile che è… che cos’è? Antitesi, forse. Guerra, certamente, a volte.

Sarebbe meglio dismettere opposizioni e conciliazioni degli opposti. Una filosofia femminista come filosofia della realtà non può pretendere di valere più di una filosofia maschilista del concetto, della mente più o meno cartesianamente disincarnata. Una filosofia della realtà è sicuramente meno efficace di un’interpretazione sociologica. La sociologia dispone di strumenti più adatti a denunciare quella “violenza nel privato che è conseguenza della violenza nella sfera pubblica”, come opportunamente nota Paola Vailati. Non per niente il vecchio Marx, quando afferma che dal rapporto dell’uomo ala donna “si può giudicare ogni grado di civiltà dell’uomo” (Manoscritti economico-filosofici del 1844) viene considerato più sociologo che filosofo.

Molto meglio quella ricerca dei “mondi possibili”, che, ancora una volta Paola Vailati sembra additare come compito concretamente proponibile alla filosofia.

Né maschile né femminile. Semplicemente umana.

Data: 18.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: Donna si diventa?

Grazie, Paola, per averci regalato una lezione sull’altra “metà del cielo” e per aver dimostrato che i giovani possono avere risorse che noi adulti non sospettiamo neppure.

Un tema, quello che hai presentato, complesso e io mi guardo bene dal sondarlo in profondità. Mi limito a qualche considerazione del tutto marginale.

“On ne naît pas femme: on le divient. Aucun destin biologique, psychique, économique ne définit la figure que revêt au sein de la société la femelle humaine; c’est l’ensemble de la civilisation qui élabore ce produit intérmediaire entre le mâle et le castrat qu’on qualifie de féminin” (“Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà ad elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna”).

A dichiararlo è una delle madri del femminismo europeo, Simone de Beauvoir - più volte citata da Paola - nel suo libro-documento Le deuxième sexe (Gallimard, Paris 1949).

Donna davvero non si nasce? Non vi è dubbio che il suo destino storico sia figlio di una cultura maschilista (che affonda radici anche nella stessa Bibbia). Hanno fatto bene, quindi, le donne a battersi per la loro liberazione, a rivendicare i loro diritti. L’hanno fatto con determinazione, anche con gesti clamorosi (a partire dalle suffragette). L’hanno fatto, talora (penso agli anni ’70 del secolo scorso), esasperando i toni, giusto per richiamare con forza l’attenzione dell’opinione pubblica.

Ho la sensazione, tuttavia, che oggi si sia arrivati a una fase più riflessiva. Non si tratta di una ritirata. No: dopo la stagione dei diritti, le donne – così mi pare – stanno prendendo coscienza che le libertà, se spinte oltre un certo limite, si ritorcono contro se stesse e che l’uguaglianza perseguita oltre misura rischia di trasformarsi in omologazione (sul modello maschile!).

La libertà è un sacrosanto diritto, ma qualcosa non quadra se il tasso di natalità in Italia è tra i più bassi del mondo: un effetto solo di carenze di servizi e di agevolazioni pubbliche, o anche un fenomeno “culturale”?

Qualcosa non quadra se, a distanza di oltre 30 anni dalla 194, il numero degli aborti è ancora preoccupante e se oggi con grande disinvoltura si punta all’aborto chimico: non dice più nulla quanto ha dichiarato l’allora ministro francese della sanità, Simone Veil, appena dopo l’approvazione della legge sull’interruzione della gravidanza “Non parlare di vittoria, l’aborto è sempre una sconfitta, la sola vittoria consiste nell’evitarlo”?

Il diritto al lavoro è, indubbiamente, una conquista (tra l’altro, anche a Crema, sono numerose le donne che proprio grazie alla fabbrica hanno maturato la consapevolezza dei loro diritti), ma la carriera ricercata a tutti i costi non rischia di ripercuotersi sui figli e di diventare una fonte di stress per una donna che si trova di fatto ad avere sulle spalle il pesante carico di un doppio lavoro?

Qualcosa non funziona se il cosiddetto sesso debole in determinati ambiti dimostra di essere molto più forte del cosiddetto sesso forte (è da decenni che i sociologi registrano il fenomeno del tramonto della figura paterna): Freud avrebbe un sussulto nella tomba se sapesse che oggi il super-io dei figli presenta impronte di gran lunga più materne che paterne!

Certo, un punto di equilibrio non è facile da conquistare. Un punto di equilibrio senza il quale, tuttavia, si rischia un boomerang: la donna per millenni è diventata tale secondo l’inprinting della cultura maschilista, ma oggi può diventare vittima della stessa cultura femminista, se male interpretata.

Le pari opportunità vanno bene (ed è bene che le donne si battano per conquistare altri spazi ancora egemonizzati dai maschi), ma l’omologazione al maschile, no. Le differenze sono sempre una ricchezza: quelle individuali e, a maggior ragione, quelle di genere (una ricchezza più volte sottolineata dalla stessa relatrice). Una ricchezza che, per lo più, prigionieri delle nostre “corporazioni”, facciamo fatica a riconoscere e ad apprezzare. A partire da noi maschi. Le donne hanno qualità che, senza esagerare, spesso danno il “sapore” e il “colore” alla vita: la sensibilità, il guizzo intuitivo, il gusto estetico, la determinazione… Qualità che di sicuro sono patrimonio anche dei maschi, ma che nelle donne sembrano statisticamente più accentuate (si nasce donna o si diventa?).

Le differenze - ripeto - sono una ricchezza, ma spesso maschi e femmine tendono a vedere nell’altro sesso più il negativo che il positivo, più ciò che divide che ciò che è complementare. Forse ci manca un’educazione in tale senso. O forse siamo schiavi di clichés culturali o, peggio ancora, di modelli venduti dalla pubblicità.

La differenza è ricchezza: donna, forse, si nasce.

Crema, 10 marzo 2010

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