FILOSOFIA E EVOLUZIONISMO - RELATORE: VALERIO POCAR

26.02.2007 21:00
 
 
I Darwin Day nascono negli Stati Uniti a metà degli anni novanta: da allora, il 12 febbraio è diventato un evento di dimensioni planetarie; ovunque si tengono conferenze, incontri, dibattiti ed eventi vari che celebrano i valori della ricerca scientifica e del pensiero razionale. Nel 2003 il Darwin Day è arrivato anche nel nostro Paese.
 
Il processo evolutivo in senso meccanicistico è, dal punto di vista teleologico, frutto del “caso”? (E.H.Haeckel).
 
Può essere considerato come manifestazione nella natura di un disegno provvidenziale? (Teilhard de Chardin)
 
(L’approfondimento su questo tema, di grande interesse e di notevole importanza filosofica, può portare alla volontà del Caffè Filosofico di ulteriormente sviluppare l’argomento il prossimo anno anche da molti punti di vista)
 
Il Prof. Valerio Pocar è ordinario di Sociologia del Diritto nella Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Milano-Bicocca, presso la quale è Direttore del Dipartimento dei Sistemi Giuridici ed Economici e titolare anche dell’insegnamento di Bioetica. E’ avvocato di Cassazione. 
È autore di oltre centocinquanta pubblicazioni; dal 1990 ha pubblicato numerosi saggi in tema di diritti degli animali, tra i quali Gli animali non umani. Per una sociologia dei diritti (Laterza, Roma-Bari, 3° ed. 2005). Dal 1998 al 2006 è stato Presidente della Consulta di Bioetica (Milano).
 
 
 
 
 
INTERESSI UMANI, INTERESSI ANIMALI. DELLA ZOOFAGIA.
di Valerio Pocar *
 
Se gli animali non umani sono, anche se forse in misura meno piena che non gli uomini, “persone”, nel senso che possiedono indubitabilmente le caratteristiche minime della personalità, come la sensibilità, la consapevolezza di sé stessi nel contesto spaziale e temporale, almeno qualche tratto d’intelligenza, la capacità di usare un linguaggio. E se, in quanto persone, essi nutrono e debbono quindi essere loro riconosciuti certi interessi minimi, ma fondamentali, come quello a mantenere la vita individuale, a riprodursi, a non soffrire ingiustificatamente e a godere della minima qualità della vita corrispondente alle caratteristiche etologiche proprie di ciascuna specie, si pone il problema del bilanciamento degli interessi animali con quelli umani.
Se il soddisfacimento degli interessi degli animali non contrasta col soddisfacimento degli interessi degli esseri umani, sembra conforme a un ovvio criterio morale che quegli interessi debbano essere rispettati, perché non vi sarebbe alcuna ragione per recare un danno. Spesso però pensiamo che gli interessi umani e quelli animali entrino in conflitto e si pone quindi la questione del loro bilanciamento, per stabilire quali meritino di prevalere e in quale misura. Agli interessi, infatti, non può essere sempre attribuita la medesima importanza: solo se ogni individuo potesse vivere per conto suo potrebbe anche pretendere che nessuno limiti i suoi desideri e potrebbe anche stabilire, nella sua piena autonomia, la gerarchia dei suoi interessi. Nella, peraltro inevitabile, interazione con altri soggetti, viceversa, la facoltà di avanzare pretese trova limiti nelle pretese altrui e la potenziale illimitatezza della libertà degli individui si scontra con limiti più o meno ristretti, proprio secondo il merito attribuito alle rispettive pretese. Merito che è strettamente collegato ai valori condivisi di una collettività, in altre parole, al peso che la cultura di quella medesima collettività assegna ai diversi interessi in conflitto.
Nelle relazioni tra i soggetti umani è in generale compito delle norme sociali e giuridiche di effettuare il bilanciamento degli interessi, fissando – e garantendo - il punto nel quale una certa pretesa deve cedere a un’altra pretesa. Se le pretese in conflitto si fondano sul medesimo interesse questo punto è o dovrebbe essere esattamente quello mediano: Tizio ha interesse a essere libero, ma la sua libertà potrà espandersi finché non s’imbatterà, a metà strada, nella libertà di Caio, altrettanto meritevole di rispetto. Se gli interessi che fondano le rispettive pretese sono diversi, il punto si collocherà, invece, secondo l’apprezzamento, espresso nelle norme, che la cultura della collettività assegna ai diversi interessi. Solo un esempio, che potrà sembrare paradossale, ma chiarisce la questione. Un rapinatore ha l’interesse ad arricchirsi compiendo rapine a danno della collettività dei cittadini onesti e questi ultimi hanno l’interesse a non restare impoveriti e impauriti per via delle rapine. Poiché il comune sentire stima l’interesse della collettività degli onesti come assai importante e quello del rapinatore come indegno di qualsivoglia apprezzamento, la legge penale vieta la rapina e garantisce la collocazione del punto di scontro tra gli interessi con una sanzione severa.
E’ chiaro, a questo punto, che il presupposto necessario del bilanciamento degli interessi come fonte delle regole che stabiliscono le rispettive e reciproche limitazioni è l’idea dell’eguaglianza dei soggetti implicati. E la costatazione che non sempre interessi di pari importanza vengano trattati nel medesimo modo e che interessi di peso differente vengono bilanciati non presupponendo l’eguaglianza dei soggetti che li nutrono, per via della variegata e ineguale distribuzione del potere, con la conseguenza che le regole giuridiche e sociali favoriscono immeritatamente certi interessi a scapito di altri, suscita, non per caso, un certo disagio morale.
Nelle relazioni tra gli umani e gli animali la prospettiva antropocentrica e specista, fondata sul potere degli umani, ha da sempre operato un bilanciamento degli interessi del tutto squilibrato, riconoscendo agli umani il diritto di agire a loro piacimento nei confronti degli animali, non solo quando i rispettivi interessi entrano in conflitto, ma persino quando il conflitto d’interessi non sussiste, e negando qualsivoglia riconoscimento o tutela agli interessi animali. Un bilanciamento, insomma, in base al quale gli interessi animali vengono azzerati, senza tenere in alcun conto l’importanza del loro interesse e l’irrilevanza dell’interesse umano. Di fatto, tale prospettiva finisce col negare che gli animali possano avere interessi.
Nella prospettiva aperta dall’etica aspecista il discorso cambia radicalmente. Gli interessi degli umani e degli animali sono entrambi potenzialmente degni di attenzione e devono essere bilanciati secondo la loro rispettiva importanza e, quando si tratti di interessi identici, rispettati nell’identica misura. Se si rifiuta la discriminazione sulla base della specie, l’interesse di un essere umano alla preservazione della vita individuale è identico a quello dell’animale, sicché entrambi meritano il medesimo rispetto e la medesima tutela. Vi sono poi casi in cui l’interesse umano sia inesistente o inconfrontabilmente inferiore a quello dell’animale, sicché a quest’ultimo deve essere accordata la prevalenza. Per esempio, è da ritenersi immorale, per esercitare la propria mira, preferire il tiro al piccione anzi che il tiro al piattello, oppure, per trovare godimento in spettacoli di abilità nei circhi, preferire il salto della tigre attraverso il cerchio di fuoco anzi che ammirare l’umana abilità dei giocolieri.
Una questione sulla quale l’attenzione umana è disposta a soffermarsi soltanto con molta difficoltà, nonostante la sua cruciale importanza, è la questione della zoofagia, vale a dire l’uso di cibarsi di alimenti di origine animale, pratica che, come ben si sa, viola tutti gli interessi fondamentali degli animali. Tale uso viene di regola giustificato argomentando che tali alimenti sarebbero necessari per il sostentamento della vita umana. Se davvero fosse così, il sacrificio dell’interesse animale alla vita sarebbe bilanciato dal soddisfacimento di un interesse umano di eguale importanza e, anzi, se davvero di una necessità si trattasse, non si porrebbe neppure una questione morale, giacché nel regno della necessità il giudizio morale non ha cittadinanza.
La zoofagia, però, non è una necessità o, se mai lo è stata, certo non lo è più. Si tratta di una scelta, che, in quanto scelta, può essere sottoposta alla valutazione morale. Un’alimentazione vegetale, se corretta e sufficiente, è perfettamente adatta e adeguata, infatti, al sostentamento degli individui della specie umana e, del resto, una parte dell’umanità non si alimenta di prodotti di origine animale. Ed è certo che i problemi di malnutrizione e di denutrizione che affliggono tanti uomini hanno a che vedere con la quantità delle risorse alimentari di cui dispongono e non con le loro scelte alimentari.
La scelta zoofaga, dunque, non si giustifica con la necessità del sostentamento della vita umana, bensì con altri molteplici interessi che difficilmente potremmo considerare degni di confronto con l’interesse dell’animale alla vita. Tali non sono gli interessi economici degli allevatori o dei macellai e tale certamente non è quello del soddisfacimento di preferenze o abitudini alimentari in ossequio a tradizioni che, in quanto immorali, debbono essere abbandonate.
Ma questi interessi umani, il cui soddisfacimento certamente non bilancia il danno recato agli animali, sono poi davvero interessi degli esseri umani?
Non occorre richiamare i possibili danni dell’uso di prodotti animali a rischio per via di metodi dissennati di allevamento e di commercializzazione (mucca pazza, polli alla diossina, vitelli agli ormoni e via enumerando). Molti nutrizionisti, del resto, hanno da tempo sottolineato i rischi che una dieta carnea presenta per la salute degli esseri umani. Con un documento del 30 novembre 2003 la American Dietetic Association e i Dietitians of Canada hanno affermato che “le diete vegetariane correttamente bilanciate sono salutari, adeguate dal punto di vista nutrizionale e comportano benefici per la salute nella prevenzione e nel trattamento di alcune patologie”, quali l’obesità, le malattie cardio-vascolari, l’ipertenzione, il diabete, l’osteoporosi, le malattie renali nonché tutti i tipi di cancro, e risultano adeguate in tutti gli stadi del ciclo vitale, dalla prima infanzia alla vecchiaia, compresa la gravidanza e l’allattamento. Del resto, sono ben noti i benefici della cosiddetta “dieta mediterranea”, conseguenti al fatto ch’essa è, tradizionalmente, poverissima di carne.
La dieta vegetariana e il rifiuto della zoofagia sono, dunque, profittevoli per la salute degli umani. Non meno importante è la considerazione che la produzione di alimenti carnei contribuisce in misura determinante al problema della fame nel mondo, sia per lo spreco di potenzialità nutritiva sia per i danni ecologici da inquinamento e soprattutto da uso indiscriminato delle risorse idriche: la medesima estensione di terreno, coltivata a cereali o leguminose per il consumo umano diretto, produce proteine vegetali dieci volte più di quanto non se ne ottengano se coltivata a pascolo o per la produzione di mangimi per l’allevamento di animali da carne. Il fatto che i paesi poveri rinuncino alla coltivazione di alimenti vegetali per il consumo diretto a favore della produzione di foraggi o di carne destinata al consumo dei paesi ricchi completa un quadro di dissennata e iniqua distribuzione delle risorse. Il cibo prodotto nel mondo sarebbe ampiamente sufficiente a sfamare tutta la popolazione umana, ma lo spreco di risorse, provocato anzitutto dalle abitudini alimentari di una parte minoritaria degli uomini, fa sì che nove milioni di esseri umani muoiano ogni anno per denutrizione e quasi un miliardo di persone sia condannato a malnutrizione cronica.
Se la zoofagia, causa di sofferenza e di morte per milioni anzi miliardi di animali, esseri senzienti trattati puramente come merce, costretti a una vita innaturale in condizioni di grande sofferenza e destinati a una morte crudele, non corrisponde agli interessi degli umani, ci troviamo - se guardiamo serenamente le cose - di fronte a un doppio livello di immoralità. L’interesse alla vita e al benessere degli animali viene sacrificato in nome di un interesse umano che non soltanto non è neppur lontanamente confrontabile con quello, ma addirittura costituisce un falso interesse degli uomini o, più esattamente, costituisce l’interesse di alcune individuabili categorie umane solamente. Si tratta dell’uso, immorale e ingiusto, del potere umano contro gli animali e dell’uso, immorale e ingiusto, del potere di certi umani contro altri umani.
Un analogo ragionamento dobbiamo svolgere nei confronti della sperimentazione sugli animali, che parimenti sacrifica tutti i loro interessi fondamentali. La sperimentazione viene giustificata in nome di un preteso confliggente interesse umano al progresso scientifico volto, in particolare, ad assicurare la salute e il benessere degli uomini. Ma la sperimentazione, oltre ad essere in sé crudele, garantisce tale interesse umano? Lascio ad altri, ben più esperti di me, di dare il loro giudizio sulla questione, ma non posso non sottolineare come il semplice fatto che vi sia tanta controversia in merito alla reale utilità della sperimentazione dovrebbe suggerire la massima cautela e, nel dubbio, un atteggiamento di prudente astensione. Che se poi vi fosse il rischio che la sperimentazione, anziché favorire gli interessi umani, si pone in contrasto con essi, ci troveremmo da fronte, ancora una volta, a una doppia immoralità, tanto nei confronti degli animali quanto nei confronti degli umani, con la conseguenza che a uscirne tutelati sarebbero solamente gli interessi particolari di alcuni umani (imprese farmaceutiche, ricercatori-sperimentatori e così via) che in alcun modo possono essere posti equamente in bilanciamento con gli interessi animali e gli stessi autentici interessi umani. Senza sottovalutare il paradosso sul quale la sperimentazione si fonda, paradosso di ben difficile soluzione etica: la sperimentazione avrebbe senso solamente se gli animali fossero sufficientemente simili all’uomo sì da consentire di riferire a quest’ultimo i suoi risultati, ma se gli animali sono sufficientemente simili all’uomo la sperimentazione sarebbe immorale in quanto lesiva di “persone” portatrici di diritti soggettivi fondamentali proprio in quanto simili all’uomo.
 
(*) valerio.pocar@unimib.it
Valerio Pocar
 
 
 
Offesa alla religione mediante vilipendio di persone: una recente sentenza della Corte Costituzionale (in I diritti dell’uomo, 2/2005, pp. 87-89)
 
Recentemente, la Corte costituzionale (sentenza n.168/2005 del 29 aprile 2005, presidente Capotosti, relatore ed estensore Neppi Modona) ha reso una pronuncia assai interessante in merito alla legittimità costituzionale dell’articolo 403, commi primo e secondo, del codice penale (offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone) (1). Una sentenza interessante non soltanto per ciò che dice, ma anche per le considerazioni ch’essa può suggerire.
Il Tribunale di Verona, chiamato a giudicare il caso di una persona imputata per aver offeso, durante un dibattito televisivo, la religione dello Stato (leggi, la religione cattolica) mediante vilipendio di chi la professa e di ministri del culto cattolico, aveva sottoposto alla Corte il dubbio di legittimità costituzionale della norma sopra citata, con riferimento agli articoli 3 primo comma (principio di eguaglianza e non discriminazione) e 8 primo comma (libertà religiosa) della Costituzione, giacché l’imputato, se mai ritenuto responsabile del reato ascritto, non avrebbe potuto beneficiare della diminuzione di pena prevista dall’articolo 406 del codice penale (2) per il vilipendio dei culti ammessi, diminuzione di pena applicabile solo alle confessioni religiose diverse da quella cattolica, non esistendo più una religione di Stato dopo l’entrata in vigore della legge 25 marzo 1985 n. 121 che ha dato esecuzione all’accordo del 18 febbraio 1984 tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica (il concordato attualmente in vigore).
La Corte ha accolto il rilievo del Tribunale e - sulla premessa che a seguito delle modificazioni subite dal concordato lateranense recepite dalla legge del 1985 è venuto meno il principio secondo cui la religione cattolica è la sola religione dello Stato e che pertanto in luogo di religione dello Stato deve leggersi religione cattolica e in luogo di culti ammessi religioni diverse da quella cattolica – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma sopra richiamata nella parte in cui prevedeva, per le offese alla religione cattolica mediante vilipendio di chi la professa o di un ministro del culto, la pena della reclusione rispettivamente fino a due anni e da uno a tre anni, anziché la pena diminuita stabilita dall’articolo 406 del codice penale.
Così facendo, la Corte ha completato un’opera di equiparazione del trattamento penale per il vilipendio della religione, meglio ormai delle religioni, opera iniziata con la sentenza n.329/1997 in tema di offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di cose (articolo 404 primo comma del codice penale), proseguita con la sentenza n.508/2000 in tema di vilipendio della religione dello Stato (articolo 402) che ha eliminato dall’ordinamento la fattispecie incriminatrice, poi ancora con la sentenza n. 327/2002 in tema di turbamento di funzioni religiose del culto cattolico (articolo 405) e ora, appunto, conclusa con la sentenza della quale si parla.
L’esigenza costituzionale che sottostà a tutte queste pronunce di equiparazione del trattamento sanzionatorio per le offese recate sia alla religione cattolica sia alle altre confessioni religiose sarebbe quella della “eguale protezione del sentimento religioso”.
La sentenza della quale trattasi è - direi, ovviamente – condivisibile. Caduta l’idea della religione di Stato (quanti decenni ci sono voluti?) e il relativo privilegio a favore della religione cattolica che comportava una intollerabile discriminazione nei confronti delle altre confessioni religiose, l’attività di equiparazione svolta dalla Corte ha rappresentato un processo di razionalizzazione formale e sostanziale dell’ordinamento giuridico.
Questo processo, tuttavia, non appare del tutto compiuto. Per esempio, permane una valutazione di maggiore gravità per il vilipendio che si concreti in offese a un ministro del culto anziché al semplice fedele, quasi che un’opinione religiosa sia più meritevole di rispetto secondo la posizione gerarchica interna degli aderenti a ogni singola confessione. A ben guardare, è ancora il principio della religione di Stato che fa capolino dalla finestra dopo essere stato cacciato dalla porta. Se il bene giuridicamente tutelato, infatti, è il “sentimento religioso”, chi potrebbe mai dire che tale sentimento non sia più autentico o più importante per il semplice fedele rispetto a quello di una qualche autorità ecclesiastica? Se è corretto (lo dice il dizionario) intendere il termine vilipendere come “offendere, disprezzare in modo grave e manifesto”, perché mai l’offesa o il disprezzo gravi e manifesti dovrebbero pesare più o meno secondo il “peso” del soggetto offeso, trattandosi pur sempre della lesione di un diritto soggettivo?
V’è anzi da chiedersi se l’intero capo I del titolo IV del codice penale (Dei delitti contro la religione e i culti ammessi) non rappresenti, nel suo complesso, una norma fonte di discriminazione, non più tra coloro che professano religioni diverse, ma tra coloro che una qualsivoglia religione professano, da una parte, e coloro che non ne professano alcuna, gli indifferenti, gli agnostici o gli atei, dall’altra parte. E’ ragionevole che la legge penale accordi uno speciale riconoscimento e una speciale tutela a favore di persone, cose e funzioni d’ispirazione religiosa e non accordi il medesimo riconoscimento e la medesima tutela a persone, cose e funzioni d’ispirazione non religiosa, atea od agnostica? E’ ragionevole, in altre parole, sostituire il vecchio privilegio per la religione di Stato con un privilegio nei riguardi di ogni religione? Ed è, tutto ciò, costituzionale?
Sappiamo benissimo che buone ragioni storiche hanno giustificato e tuttora giustificano - là dove le religioni di Stato (o magari anche gli ateismi di Stato) hanno comportato e comportano discriminazioni tra i cittadini che professano religioni diverse o comunque una religione - una speciale affermazione del riconoscimento della pari dignità di ogni fede religiosa. Ma come dimenticare che proprio in quei luoghi e in quei tempi una discriminazione forse anche maggiore colpiva e colpisce i liberi pensatori, gli agnostici e gli atei? Lo spirito “ecumenico”, che in tempi recenti ha mosso gli esponenti di religioni istituzionali e tradizionalmente affermate, si è indirizzato alla ricerca di elementi comuni di fratellanza tra le chiese, ma non si è mai spinto fino a includere nella prospettiva della fratellanza anche coloro che considerano la religione, in quanto tale, un fenomeno puramente storico e culturale. Insomma, absit iniuria verbis, si comprende bene che asinum asinus fricat, vale a dire, in lingua più grossa, che “cane non mangia cane”, ma si tratta di scelte ecclesiastiche, rispetto alle quali lo Stato dovrebbe restare perfettamente estraneo e indifferente.
Un solo esempio per chiarire il concetto. Qualcuno ha pubblicato, in occasione della recente elezione di Benedetto XVI al soglio pontificio, una vignetta satirica allusiva a presunti precedenti nazionalsocialisti del nuovo papa: e subito qualcun altro ha invocato l’articolo 403 del codice penale. Forse di cattivo gusto la vignetta e magari stupida, stupidissima la reazione, ma l’articolo 403 sta tuttavia nel codice penale. Qualcuno ha fatto affiggere manifesti che accusavano dichiaratamente di propensioni nazionalsocialiste coloro che raccoglievano firme per la proposizione dei referendum per l’abrogazione di parti della legge sulla fecondazione assistita ritenute particolarmente lesive di diritti fondamentali delle cittadine e dei cittadini e, nel corso del dibattito referendario, innumerevoli volte i sostenitori dei “sì” sono stati tacciati di nazismo: quale articolo del codice penale invocare per questo “vilipendio”?
Beninteso, è certo che gli atei e gli agnostici non desiderano né chiedono uno speciale riconoscimento del loro punto di vista e del pari è certo che loro basterebbe e avanzerebbe che il diritto di libertà di opinione e della sua espressione, che ogni costituzione degna di questo nome riconosce, sia effettivamente garantito. Ciò che è tuttavia difficile comprendere, non soltanto per gli atei, ma per i cittadini democratici, è lo speciale riconoscimento giuridico accordato a un particolare tipo di opinione, quella religiosa (perché sembra difficile dubitare che di un’opinione si tratti), quasi che vi fossero opinioni di vario rango, di serie A e di serie B. Come avrebbe detto Orwell, parafrasando sé stesso, forse che le opinioni sono tutte eguali, ma qualche opinione è più eguale di un’altra? Come si accorda tutto ciò con la laicità dello Stato e del diritto, fondamento della democrazia? Come accettare che taluno sia più garantito di altri nel rispetto delle sue opinioni e possa, più di altri, esprimere la propria?
E’ davvero un peccato che, in ossequio al principio della limitazione del thema decidendum a quanto devoluto dal giudice remittente, la Corte non abbia – con scelta del tutto corretta, s’intende – potuto prendere in considerazione la richiesta avanzata, nel corso del processo costituzionale, dalla parte privata. Il difensore dell’imputato, infatti, aveva domandato che l’esame da parte della Corte si allargasse a una valutazione di illegittimità costituzionale dell’intero articolo 403 del codice penale sì da giungere alla sua integrale caducazione. Osservava a questo proposito il difensore dell’imputato che la norma in esame determina una disparità di trattamento perché punisce solo le offese alla religione cattolica e ai culti ammessi nello Stato e non anche le offese recate all’ateismo, all’agnosticismo o a qualsivoglia altra religione che tra quelle non rientri, sicché sarebbe necessario ripristinare “la parità di trattamento tra ideologie religiose positive e negative” tramite l’abrogazione dell’intera norma, tenendosi altresì conto che “le offese all’onore o al decoro di chi crede e di chi non crede” trovano già tutela nelle disposizioni del codice penale concernente i delitti contro l’onore. Sarà per una prossima volta.
Sin d’ora, però, vorremmo avanzare qualche considerazione in merito all’opportunità di mantenere il concetto stesso di vilipendio nell’ambito della previsione penale per ciò che concerne la/e religione/i. L’articolo 403 del codice penale prevede la punizione di colui che “pubblicamente offende la religione …, mediante vilipendio di chi la professa” ovvero “mediante vilipendio di un ministro del culto”. L’articolo 404 prevede la punizione di colui che offende la religione “mediante vilipendio di cose che formino oggetto di culto, o siano consacrate al culto, o siano destinate necessariamente all’esercizio del culto”. L’articolo 405 prevede la punizione di colui che “impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto…”, con pena aggravata se “concorrono fatti di violenza alle persone o di minaccia”. Sono tutti comportamenti già puniti da altre disposizioni del codice penale e davvero non si comprende il bisogno di prevederli come fattispecie particolari allorché siano collegate a certi culti o al loro esercizio. A ben guardare, ancora, dato per fermo che le offese non sono mai consentite, il disprezzo, quando non si concreti in offesa, è a sua volta una pura e semplice opinione, magari sgradevole, ma pur sempre un’opinione. Non solo, ma, mentre è certo che si possono offendere le persone, con un comportamento, lo ripetiamo, giustamente censurabile, si possono “offendere” le cose? di più, si possono “offendere” le idee e le opinioni? Chi dicesse che Hegel è un imbecille offenderebbe Hegel, ma chi dicesse che il pensiero di Hegel è una congerie di stupidaggini disprezzabili offenderebbe Hegel o esprimerebbe una legittima opinione sulla sua filosofia? L’errore è nel manico, vale a dire nel riconoscimento di uno statuto privilegiato per le opinioni religiose rispetto alle opinioni tout court. Viceversa, è chiaro che nel momento stesso in cui si riconoscono come degne di eguale trattamento le diverse concezioni religiose si ammette la loro pluralità ed esse concezioni vengono ridotte al rango (o forse elevate al rango) appunto di mere opinioni. Mere opinioni che, al pari di tutte le altre, possono essere nutrite, espresse e propagandate, meritando il rispetto che a tutte le opinioni è dovuto, senza discriminazioni, ma anche senza privilegi.
 
(1) Art. 403. (Offese alla religione dello Stato mediante vilipendio di persone). Chiunque pubblicamente offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di chi la professa, è punito con la reclusione fino a due anni.
Si applica la reclusione da uno a tre anni a chi offende la religione dello Stato, mediante vilipendio di un ministro del culto cattolico.
(2) Art. 406: (Delitti contro i culti ammessi nello Stato). Chiunque commette uno dei fatti preveduti dagli articoli 403, 404 e 405 contro un culto ammesso nello Stato, è punito ai termini dei predetti articoli, ma la pena è diminuita.
 
 
 
 

 

Dibattito

Data: 28.12.2020

Autore: MixInted

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Autore: MixInted

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Autore: MixInted

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Data: 21.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: EVOLUZIONISMO / CREAZIONISMO

Si è recentemente riacceso un dibattito che in realtà non si era mai spento, fra sostenitori del creazionismo e sostenitori dell’evoluzionismo. Le due posizioni sono note: la prima individua l’origine dell’uomo e della sua specificità rispetto agli altri esseri cioè l’intelligenza, in un intervento razionale e finalistico eccezionale ed estraneo all’uomo stesso; la seconda affida tutto ciò che caratterizza l’uomo, ed in particolare la sua intelligenza, ad un processo evolutivo quale schematicamente è stato per la prima volta espresso da Charles Darwin.

Ora – ed è questa un po’ la novità – negli Stati uniti d’America è in campo una teoria che, almeno a parole, intenderebbe porsi come un elemento di mediazione fra le due posizioni: la teoria dell’”irriducibile complessità” dell’essere vivente e in particolare dell’uomo che spingerebbe a ritenere insufficiente la concezione evoluzionistica, pur accettata per taluni passaggi biologici, per spiegare appunto la complessità e unicità della vita. In particolare si sostiene insufficiente rimanere nel solo riferimento alla materia per arrivare alla coscienza.

In realtà tale concezione non fa che spostare un poco più in avanti il problema e rivendicare da ultimo ancora la necessità dell’intervento creazionistico.

Ancora una volta appare necessario distinguere l’ambito della scienza da quello della fede e della filosofia. Aspettarsi che sia la scienza a risolvere problemi di carattere “globale”- quale è appunto la spiegazione dell’origine della vita razionale – significa tradire il significato stesso della scienza, che si pone come una indagine specifica nel campo della parzialità , ambito da cui essa in nessun modo può uscire avendo come unico strumento a disposizione l’osservazione empirica ( per quanto sempre più potenziata e sofisticata). Diverso è l’ambito della fede che invece si propone esattamente di superare la barriera del mondo empirico per far posto a convinzioni e a credenze di carattere “assoluto” frutto di una illuminazione o addirittura di una rivelazione divina. Si tratta insomma di credere negli “invisibilia” sulla base di un rapporto di fiducia nei confronti di Dio.

In nessun modo la scienza potrà parlare esplicitamente della dimensione dell’assoluto; così come non potrà essere la dimensione dell’assoluto a spiegare le domande scientifiche. L’”irriducibile complessità” intende essere una dimensione tutto sommato di fede indebitamente infiltratasi nel campo scientifico. Potrà anche essere vera, ma in nessun modo potrà fregiarsi (o abbassarsi) del titolo di scienza. Ma la filosofia invece, è appunto il luogo dove “con verità” si affronta la dimensione della totalità, o dell’assoluto.(ciò che riguarda il “tutto” non può che riguardarlo per sempre). Dove quindi il problema dell’origine (e del fine) trova la sua risposta; e la trova nella affermazione incontrovertibile dell’impossibilità che ciò che è, sia stato un niente, o possa diventare mai un niente. E’ quindi sulla base del principio di non contraddizione riferito all’essere che la figura filosofica della “creazione dal nulla” esprime invece la propria autocontraddizione.

Ritorna prepotente d’attualità la domanda che il neoplatonico rivolgeva a S. Agostino: “che faceva Dio prima di creare?”. E non si potrà stavolta sfuggire al problema con abilità puramente retorica.

Data: 21.06.2013

Autore: Secondo Giacobbi

Oggetto: Riflessione

Anch'io mi sono chiesto : ma come è possibile che l'evoluzionismo sia oggetto, all'alba del XXI secolo, di attacchi così aggressivi e imprevedibili, in un' epoca comela nostra, così spettacolarmente segnata dallo sviluppo tecnico-scientifico?

Sgombro il campo da un equivoco possibile: sono uno spiritualista, e credo che l'evoluzionismo sia una teoria assai più descrittiva( ed in modo convincente) che esplicativa.Credo cioè che dia solo ragione in parte del fenomeno-vita,credo..Del resto non è così comunque e ovunque, in qualsiasi territorio disciplinare, per il discorso scientifico?

E tuttavia,in termini puramente scientifici e meramente descrittivi,l'evoluzionismo è incontestabile, persuasivo documentato. E, sinora almeno, ormai accettato nel mondo della cultura e, persino, ecclesiastico. Come spiegare questa recrudescenza di creazionismo? Butto lì un paio di spiegazioni possibili:

la crisi della Modernità e delle sue tradizioni di pensiero ha contribuito a rilanciare posizioni spiritualistiche ( quorum ego ) e, in Italia, un'imponente rimonta di clericalismo, che non può non preoccupare i laici, spiritualisti, agnostici o atei che siano. Per di più, in Italia, il clericalismo è una delle armi di lotta politica della Destra ( che non ha niente a che vedere, sia detto per inciso, con la tradizione del liberal-conservatorismo, così rispettoso della laicità dello Stato).

Ha ragione il vecchio Freud ( opportunamente citato da Patrizia De Capua ). Mi spiego: la cultura post-moderna è una cultura del narcisismo; non può stupirci che rifiuti concezioni del mondo profondamente anti-narcisistiche, e quindi Darwin e l'evoluzionismo ( ma anche Freud e la psicoanalisi, che non a caso è fortemente contestata dalla cultura post-moderna).

Mala tempora currunt.

Data: 21.06.2013

Autore: Adriano Tango

Oggetto: Sull'evoluzione divina e la conciliazione delle posizioni

Titolo blasfemo! Un Assoluto in evoluzione!

So che qualcuno si dirà, da lui possiamo aspettarci questo e di peggio, oppure, non capisco perché si prenda la briga di voler conciliare quando tutte e due le posizioni, quella del credente e quella del realista gnostico, trovano pieno appagamento in se stesse.

Non voglio conciliare proprio niente, mi accorgo semplicemente che una visione delle cose, e non solo mia, ma anzi estremamente antica, non vede contraddizioni.

Il problema caso mai è: perché nel corso dei millenni quel che dirò è stato detto tante volte, e poi sono arrivate anche le conferme scientifiche, ma in tanti, per paura di cadere in una nuova credenza, o per estraneità a quanto non concordava con i canoni della propria, abbiano voluto capire altro o semplicemente girar pagina?

Partiamo, a caso, dall’antica Persia, poi andremo avanti ed indietro nelle concezioni storiche dell’assoluto.

A cavallo del V secolo a.c. dallo zoroastrismo gemmano varie concezioni filosofico – religiose che non si accontentano più dell’opposizione del bene e del male, impersonati da opposte divinità, come visione sacra del reale.

Fondamentale fra le tante sfumature del nuovo credo lo Zurwaismo.

Con potente intuizione la divinità, Zurwuan, è identificata nel tempo.

Non più una singolarità, attivamente o meno impegnata nelle cose del mondo, ma l’unica cosa di cui abbiamo esperienza senza alcuna possibile concezione: il tempo, il substrato stesso del divenire.

Ora, il fatto che il pensiero scientifico abbia posto il tempo fra le componenti delle celebri formule einsteiniane, al pari di grandezze misurabili, non ci aiuta proprio per niente a concettualizzarlo.

In tale concezione religiosa tuttavia la connessione con il mondo materiale viene ad essere poco chiara, almeno da quanto ci è attualmente dato di sapere su quell’antica dottrina: chiaro comunque che il senso delle cose starebbe nel loro divenire (evoluzione) e che lo spirito che anima il processo, in quanto tempo, è la divinità.

Balziamo avanti fino all’inizio dello scorso secolo: Teilhard de Chardin espone la sua dottrina secondo cui il “grande progetto” esisterebbe, ma si svilupperebbe in senso evoluzionistico.

Sì proprio così Dio si autorealizza!

All’inizio della storia dei tempi tutto è materia, alla fine tutto è divinità: scopo dell’evoluzione? Dar vita progressivamente nel tempo a Dio.

Blasfemo! Già, peccato che l’abbia concepita un prete questa visione, ed un prete poco osannato ma mai sconfessato dal pensiero religioso cattolico.

Ora il fatto è che oltre ad essere un religioso T.d.C. sia stato anche un uomo di scienza, un geologo: si potrà dire quindi che non ha resistito alla pulsione di conciliare le proprie conoscenze sui fossili con la sua visione cattolica del divino. Una voce isolata, aberrante, ed inoltre un richiamo ad una religione protostorica che solo io voglio evidenziare, quindi non fa testo!

Certo, peccato che la sua concezione del Dio come materia e biologia sia stata già quella di Spinoza e che rispetto alla somma del tutto, in senso materiale, questa visione non ci parli di altro che della teoria del big bang.

Non a caso Hawking parla del big bang come di un modello “Dio compatibile”.

Ma sicuro che il big bang sia una teoria di nuova formulazione e nata dalla scienza?

L’esposizione scientifica non è altro che il sistema per dare un alfabeto a ciò che la mente già sa.

Andiamo ad oriente, Cina, vari millenni fa: il tai.chi è l’emblema della realtà in forma di cerchio con una linea di demarcazione sinusoide, simbolo di rotazione, che separa i due colori, ognuno dei quali porta in se un pallino del proprio opposto.

Il simbolo é noto a tutti per averlo visto in negozi di cose orientali o in altre mille occasioni.

Bene, il pensiero preconfuciano ci ha tramandata anche l’idea che il Tai Chi nasca dall’ U Chi, il nulla assoluto, rappresentato da un cerchio vuoto.

Non si tratta di altro che della rappresentazione grafica ed ideologica di ciò che recentemente la scienza ha definito il momento di Planck: ad una frazione infinitesimale di tempo dal momento zero del Big Bang, un secondo alla meno sei se non sbaglio, nasce l’Universo e la materia si espande come massa amorfa rotante, salvo bolle di antimateria che si demarcano all’interno (i pallini del tai chi).

Antecedentemente a quel momento la nostra conoscenza, come modello matematico, si ferma, perché tutto perde di significato comprensibile.

Ma come hanno fatto antichi cinesi a fare un disegno che rappresenta l’inizio del mondo?

Si può rispondere che hanno voluta rappresentare la loro conoscenza dell’ordine delle cose, in cui anche l’inizio del mondo è compreso.

Comunque è dimostrato che l’uomo è capace di disegnare, in alterate condizioni percettive, il risultato grafico di complicate equazioni frattaliche senza conoscere niente sull’argomento o averle mai viste. Ma non divaghiamo. Cosa voglio dimostrare?

Che un’intuizione forte precorre il tempo della conoscenza e che delle nostre visioni intuitive della “così detta realtà” dobbiamo fidarci, perché quella forma di consapevolezza comunicabile che chiamiamo “dimostrazione scientifica” arriva solo dopo che tanti hanno detta la stessa cosa essendo considerati solo dei mistici, se non un po’ suonati.

Bene ancora, blasfema o meno la concezione di un Dio evolutivo che ci attende alla fine dei tempi, ma che essendo il tempo stesso, già nostra sostanza attualmente e non con noi dall’alto, mi sembra che non trovi contraddizioni né in una visione religiosa, se aperta, né in una visione gnostica.

Tento una definizione: Dio come “concezione del pensiero in cui la somma del tutto è uguale ad Uno, tempo e pensiero stesso compreso”.

Nulla di originale, è stato già detto in altre forme. Infatti.

Si può obiettare che una costruzione di questo tipo comunque costituisce un modello finalistico, una specie di disegno divino. Vero e falso, affrontiamo un altro aspetto.

Attualmente si discute sull’ipotesi che l’evoluzione non avvenga solo per “caso e necessità”, ma la materia stessa abbia una intrinseca volontà di “complessazione”, che l’ereditarietà non sia basata solo sulla trasmissione di geni, ma bensì di geni che trasmettiamo ai nostri figli modificati dalle nostre esperienze ed abilità acquiste: ad esempio il contatto con l’informatica sta espandendo geneticamente certe zone del cervello dei nostri figli: trasmettiamo loro un’abilità acquisita?

Pare stiano arrivando le dimostrazioni dall’RMN funzionale del cervello.

Ora c’è da chiedersi: ma se questa materia vuol divenire vita, se questa vita vuole evolversi, sa dove va? A cosa mira?

Ovviamente no, non lo sa, ma tutto procede per una spinta intrinseca, non per una volontà esteriore, in un’ipotesi di questo genere.

Quindi senza bisogno di un Attore esterno,il Quale ne costituisca la conseguenza come Somma del tutto?

Si può pensare che ciò avvenga nella Sua presenza piena lungo tutto il processo, non in base alla fase di sviluppo, nella Sua Forma Totale, essendo il tempo stesso Suo costituente.

Bene, immagino che il pensiero attuale di chi mi legge, almeno di quelli che hanno lasciato acceso il P.C., sia: questa illazione non serve a niente, per quanto possa essere una costruzione logica, sia pur basata solo su vaghi riferimenti.

Ribadisco, non si tratta di un’idea mia, ma di una posizione dura a morire nei millenni, anche se ogni volta che si ripresenta riappare come falsamente originale, senza riferimento agli antecedenti, dato che la figura, o il movimento di scena che la ripropone, li ignora.

Io ripropongo solo i parallelismi.

Credibile, alcuni diranno.

Ma ancora… a che serve?

Serve, serve questa come tante altre per turare il buco di cui abbiamo parlato in modo diverso.

Serve perché il buco lo possiamo turare o con un pacchetto di verità preconfezionata oppure filosofeggiarci sopra, ma pensare di poterlo lasciare aperto ed occuparsi di altro è inutile, è una mutilazione comunque.

Serve perché se guardiamo alla nostra esperienza di viventi non possiamo non accorgerci, da esseri intelligenti, che la realtà non è ciò che tocchiamo con mano, e neanche noi stessi, la nostra individualità psicofisica di cui superficialmente ci accorgiamo, solo ciò.

E’ una sensazione palpabile e non priva di dimostrazioni, su cui non mi soffermo in uno scritto così breve, ma se ne può parlare.

Doveroso quindi, fra i significati da dare alla nostra esistenza individuale, tentare l’interpretazione del legame fra quanto a noi sperimentabile e quanto non accessibile per dare coerenza al tutto, con modelli condivisi, o ognuno magari con il proprio modello.

A questo punto riprendo la domanda iniziale: perché una visione che in varie forme è stata più volte proposta da tempi quasi preistorici, almeno per la nostra cronologia occidentale, a quelli recentissimi della conoscenza scientifico filosofica, non ha mai preso piede?

Con dispiacere per l’Individuo debbo ammettere un’ipotesi: perché comporta la piena presa di responsabilità individuale, pur nell’ammissione della realtà del trascendente, nessuno spazio alla delega.

Nel momento in cui la Divinità non è più immanente su di noi, ma noi stessi ne siamo la componente, per così dire la stoffa per il momento più fine, nostro è il giudizio assoluto, nostro il peso delle azioni, senza spazi per la consolazione.

Ultima obiezione: ma a che serve un Dio che non si saprebbe nemmeno da dove possa trarre la propria autocoscienza e che se ne sta passivo ad attenderci alla fine dei tempi mentre questo giocattolo, il creato, si dipana e si raggomitola per realizzarLo perché poi Lui stesso si sparpagli nuovamente nella bruta materia?

Questo possibile ragionamento contestativo esprime un limite proprio della natura stessa della nostra intelligenza di uomini, sviluppatasi per affrontare problemi pratici e promuovere quindi la crescita individuale e della specie nella sua evoluzione.

Se questo strumento lo applichiamo all’astratto cade in trappole di questo tipo.

Quando il pensiero buddista, molto più vicino ai temi dell’universale, ha visto, vedi caso sempre la stessa storia, l’universo come l’alternarsi dei respiri di Brahama, espansione ed implozione, non si è mai posto questo problema.

Infatti potrei semplicemente rispondere e rispondermi: a che serve ? Serve a servire!

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