IL MONOTEISMO DELLA RAGIONE - RELATORE: GIORGIO TROGU

08.01.2007 21:00

…Qualcuno vuole conversare

con noi sul tema del “monoteismo della ragione”?

Quando si formano i

nostri convincimenti, siamo sicuri di esserci abbeverati solo alla fonte

della ragione sillogistica?

A un certo punto del suo pensiero Martin Heidegger, riproponendo il problema di Dio, incominciò a usare il plurale: i più lo credettero improvvisamente impazzito (“cosa non difficile ad accadere in chi cammina agli estremi limiti della ragione “– commentava Bontadini); – ma forse c’era un motivo preciso per questo tornare a parlare di “dei”.

Il monoteismo, in effetti, richiama una pluralità di religioni: è possibile però coglierla come valore e opportunità piuttosto che come occasione di conflitto.

Un rapido accenno al pensiero di Umberto Galimberti (che forse vedremo alla “ Crema del Pensiero “ il prossimo aprile ) che ci propone una via

psicologica della filosofia; e, dopo un ancor più rapido tentativo di

inquadrare, in termini generali, il problema, si aprirà la discussione in un clima di

parafilosofia.

Il che significa: faremo quattro chiacchiere tra amici

intorno al problema della conoscenza confrontando le nostre opinioni.

Dibattito

Data: 22.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: Ragione è Responsabilità

Prendo ulteriormente spunto dalla stupenda relazione del Prof. Trogu e dai successivi interventi per rimarcare un concetto che mi sta a cuore, prendendomi qualche libertà espositiva ed espressiva.

E’ emerso chiaramente che l’uomo occidentale contemporaneo, nel produrre oggetti tecnologici figli di un razionalismo strumentale, lungi dall’essere capace di dominarli conservando il dominio di se stesso finisce per esserne vittima. Se non fosse per la vaga assuefazione a cui molti ormai paiono condannati, sarebbero abbastanza chiari i casi di bisogni indotti creati da tanti beni materiali che non esistevano fino a poco tempo fa (vivendo comunque “felici”), e che oggi appaiono sostanzialmente irrinunciabili (a questo meccanismo di induzione di bisogni pseudo-necessari era già arrivato Alexis de Tocqueville nei suoi scritti sul pauperismo – molto prima dell’esplosione tecnologica di massa). Gli oggetti non sono “inerti”, quindi, ed anzi mutano la stessa struttura psichica di chi li usa. Da questo molti deducono l’incapacità, da parte dei consumatori, di riscoprire la dicotomia essere-avere, privilegiando purtroppo il secondo termine, producendo generazioni di giovani cellulare-dipendenti che leggono Nino Bixio come Nino Biperio (leggasi recente esilarante articolo del Corriere della Sera). Fin qui trattasi forse di facezie, ma quando l’attenzione si sposta su argomenti drammatici come l’apocalisse ambientale prossima ventura ecco che gli effetti non intenzionali dell’utilizzo della ragione scientifica per fini tecnologici finiscono sotto accuse generalizzate e generalizzanti. La tecnologia sarebbe male per i più svariati motivi, da quelli potenzialmente condivisibili a quelli che si distinguono solo per la mancanza di senso del ridicolo di chi li sostiene. Gli esempi riguardanti l’utilizzo di risorse “sporche” per soddisfare le necessità energetiche sono ovvi. Per riferirsi all’elettronica di consumo, certi aggeggi paiono essere diventati dei prolungamenti degli arti, mentre il PC è un surrogato del cervello; ma tutto questo non è affatto inevitabile. Io contesto la presunta ineluttabilità della schiavitù indotta dall’utilizzo di oggetti vagamente disumanizzati dai quali siamo circondati, quasi come se questi fossero i veri padroni della nostra vita, e da qui a ritroso fino ad inveire contro l’impostazione intellettuale che li produce – la ragione scientifica “sillogistica” (per inciso, mi permetto di criticare l’uso di questo inadeguato aggettivo: se l’Occidente fosse rimasto fermo al sillogismo l’evoluzione tecnologica sarebbe parimenti rimasta immobile, almeno se si prende l’aggettivo medesimo nel senso tecnico). Qui si stanno dimenticando le più importanti facoltà dell’uomo, quelle che precedono anche la “precondizione” rappresentata dalla stessa ragione meccanica, che precedono pure le altre forme di conoscenza rappresentate dalla letteratura, dalla poesia o dall’arte: la libertà e la responsabilità. Io dico, tornando sulla Terra: ridicolo è l’uomo che si scaglia contro gli oggetti che produce per semplificarsi la vita! A monte di qualunque dipendenza psicologica da tecnologia c’è e deve restare la consapevolezza dell’utilizzo che se ne fa, e a nulla deve valere la protesta contro chi o cosa ci avrebbe forzati a fare un uso demenziale o parossistico di strumenti concepiti per scopi altri. Che ne è della responsabilità? Posso davvero sperare di cavarmela facendo le crociate contro il telefonino che disturba invadente nei luoghi pubblici? E’ chiaro che il problema non è il telefonino – che resta un’invenzione straordinaria – ma il cafone maleducato. Un certo qualunquismo incolpa la “società consumistica” di tutti i mali, lavandosi la coscienza individuale ignara del fatto che la società siamo io, te, lui, “doverosamente liberi” (felice ossimoro) di fare una pernacchia al nuovissimo palmare ultraleggero che sbatte anche le uova insegnando ai figli che probabilmente certi trabiccoli non servono a niente, nonostante il martellamento mediatico. Mille altri esempi, molto più cogenti, potrebbero essere esposti.

Immagino di alzarmi dal suolo, entrare in orbita ed osservare l’umanità con occhio distaccato, entro una cornice temporale di lungo periodo: la vedo avanzare ipotesi e metterle alla prova, imparare da questi controlli e concepire artefatti che si fondano su quanto si è capito da quelle indagini, per essere poi incapace di farne un uso accorto, come se l’audacia delle proprie scoperte e invenzioni – frutto della volontà di conoscere e controllare le forze della natura che da sempre la schiacciano – sia tremendamente in anticipo sulla capacità di padroneggiarle e contenerle con matura consapevolezza. Quasi un residuo di infantile irresponsabilità, un tirare il sasso e ritrarre la mano, l’inadeguatezza a reggere il peso di un effetto stressante che la civiltà induce mentre progredisce, rischiando ad ogni passo di precipitare di nuovo in vecchi arcaismi, come molto pertinentemente uno degli ultimi interventi ha sottolineato: stiamo attenti a non confondere un sano senso del mistico con la “riscoperta” di vecchie ideologie irrazionali sature di menzogna e violenza, che già provocarono guerre mondiali ed un’altra potrebbero provocare a breve, con mezzo mondo che mette la testa nella sabbia.

Sotto questa luce il discorso del Prof. Trogu emerge in tutta la sua validità: c’è ben altro che il mero esercizio di una tecnica intellettuale / empirica fatta di logica, esperimento, ipotesi, teorie (teorie come reti: solo chi le butta può poi sperare di pescare pesci sostanziosi e non buchi nell’acqua, riprendendo un aforisma di Novalis – la ragione tecnologica è fatta anche di rischi, tentativi ed errori, insuccessi). C’è anche responsabilità, coscienza dei propri limiti, inesistenza di scorciatoie pseudo-razionali che non fanno altro che irreggimentare le masse, e l’accettazione di una accezione allargata di ragione consapevole della propria impossibile autofondazione. Scelgo di essere razionale perché voglio trovare, con metodi condivisi e pacifici, mezzi che tutelino la vita di tutti e ne migliorino la condizione, isolando coloro i quali pretendono di possedere la Verità ed imporla agli altri, la cui scelta potrebbe essere altrettanto coerente, ma è certamente destinata a mancare per sempre i due obiettivi di cui sopra (penso a qualcosa del genere quando penso alla parola democrazia, e non a cose come “governo del popolo” o “volontà generale”, che non significano niente). Questo è ciò che intendo per atteggiamento razionale, principalmente radicato in una scelta fondamentale di carattere etico, la cui componente strettamente logico / matematica / ingegneristica non è che una parte - anche se largamente più nobile di quanto taluni pensatori vorrebbero farci credere. Qualunque idea crea effetti non previsti, conseguenze non intenzionali; ciò è dovuto primariamente al fatto che la mente umana non domina la realtà come un tutto e non la può controllare olisticamente come tale – il che sarebbe la vera assurda volontà di potenza - ; la critica di suddette conseguenze è un dovere, ma è un errore distruggere l’impianto intellettuale generale, semplicemente perché – ecco la mia convinzione, parzialmente in antitesi con altre concezioni della ragione – non abbiamo alternative credibilmente percorribili. Abbiamo scoperto che l’economia al petrolio non è veramente sostenibile? Non lo potevamo prevedere quando il primo pozzo cominciò ad essere sfruttato; ora lo sappiamo, nel frattempo altre tecnologie si sono fatte strada grazie alla vituperata ragione “sillogistica” e noi possiamo potenzialmente continuare a vivere nelle nostre case, muoverci da esse, sfamare gli abitanti del pianeta senza annientarlo (con molto altro lavoro ancora e sempre da fare). In queste dichiarazioni non c’è niente di romantico: noi siamo più che in grado di sfamare l’umanità, ed il problema è stato risolto dalla tecnica, non dall’economia, dalla politica o dalla filosofia. Il dato di fatto circa la fame drammatica patita da una quota ancora vergognosa di esseri umani è da imputare a politiche demenziali e criminali, cioè all’irresponsabilità umana, non al transistor o al motore a scoppio: guardiamo alla realtà senza paraocchi ideologici e stereotipi politically correct nell’osservare regimi corrotti e dittatoriali che affamano i propri popoli mantenendoli in condizioni culturali medievali, prima ancora che in indigenza materiale (detto per inciso, a mio modo di vedere le idee sono molto più importanti delle condizioni materiali, e l’influenza delle prime sulle seconde è largamente superiore alla relazione inversa, con buona pace di Marx). Noi sbraitiamo contro le automobili che inquinano e le sette sorelle che le muovono, per metterci al volante anche per percorrere due isolati; dibattiamo sulla cattiva maestra televisione ma è sempre accesa; ci lasciamo tiranneggiare dal telefono cellulare e si vedono adulti che si divertono a fare gli “squillini” all’amico come adolescenti; più profondamente: creiamo una strepitosa tecnologia che fornisce a costo ridottissimo un’inesauribile fonte di informazione (Internet) e l’uomo la satura con apologie dell’odio e tonnellate di pornografia: vogliamo protestare contro il mezzo o contro chi ne abusa?

Data: 22.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: L’immaginazione al potere

Alcuni pensieri germogliati in me dalle riflessioni di Giorgio Trogu, e in particolare dalla scintillante immagine della conoscenza come lago arricchito da più immissari.

“Non si può applicare il sogno anche alla soluzione dei problemi fondamentali della vita?” chiedeva André Breton nel Manifesto del Surrealismo del 1924. Breton aveva in mente un pensiero “in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione”, una riconsiderazione delle componenti irrazionali o extrarazionali della creatività estetica e del subconscio, un rifiuto della logica a favore di una totale libertà di espressione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale. In questo contesto, anche follia e stati di allucinazione (si ricordi De Chirico e l’arte emicranica di Ubaldo Nicola) venivano rivalutati come modalità conoscitive autorizzate a contribuire al nostro desiderio di felicità.

Più tardi, nel 1946, mentre i popoli delle nazioni democratiche erano alle prese con il problema di cogliere i frutti delle loro vittorie militari, Horkheimer tracciava una sintesi del pensiero della Scuola di Francoforte nell’Eclisse della ragione, dove una “Critica della ragione strumentale” veniva ad affiancarsi alle più complesse formulazioni della Dialettica dell’illuminismo. Tale critica si traduceva nell’invito alla filosofia a diventare memoria e coscienza dell’uomo, restituendogli fiducia in un’epoca di sfacelo della cultura e di predominio della ragione soggettiva o strumentale (si veda l’intervento di Luca Lunardi). “La denuncia di ciò che viene comunemente chiamato ragione è il più grande servigio che la ragione possa rendere all’umanità” concludeva Horkheimer.

L’invito rivolto alla filosofia a non isterilirsi in arido razionalismo non è certo una novità. Tralasciando il riferimento al più noto esprit de finesse, si potrebbe parafrasare Feuerbach, raccomandando ai filosofi di fare in modo di nascere da madre francese e padre tedesco, dal momento che “il cuore, che è il principio femminile, il senso del finito e la sede del materialismo, è francese; la testa, che è il principio maschile e la sede dell’idealismo, è tedesco”. Con cuore rivoluzionario e testa riformista, testa statica e cuore dinamico, si crea una miscela decisamente creativa: per far nascere lo spirito, agitare, non mescolare.

Pur apprezzando tutte queste emende alla presuntuosa ragione, l’intervento di Silvano Allasia ha prodotto in me l’effetto di un’iniezione di sano illuminismo, e sottolineo sano, nel senso che la ragione illuministica è destinata ad essere derisa e sconfitta, o peggio ancora a generare mostri, se viene impropriamente identificata con la Dea Ragione. Se invece più umanamente si accontenta di autocriticarsi ed autolimitarsi, riconoscendo nel contempo la forza delle passioni, allora sì che produce pensiero vicino alla verità. In fin dei conti anche un panlogista come Hegel ammette che “nulla di grande si fa senza passione”.

Ma come chiarisce Secondo Giacobbi, il discorso di Trogu non è irrazionalismo che nega la razionalità: se mai è un invito a far dialogare pensiero cosciente e pensare inconscio. A me è parso quanto mai pertinente il richiamo di Giorgio Trogu al pensare africano illustrato da don Agostino Cantoni: integrare emozione negra e razionalità ellenica, danzare la vita, tendere all’armonia, ancora una volta, fra femminile e maschile, e magari recuperare la capacità di gioco tipica dell’infanzia (si veda l’intervento di Marco Ermentini che opportunamente cita il filosofo virtuale Andrea Bortolon).

Negli anni Settanta del secolo scorso, ci siamo ubriacati di utopie. Abbiamo creduto che il promesso mondo giusto fosse lì, a portata di mano. Che ne è oggi di quella freschezza disinvolta? Apprendo dalla Lettura dei segni dei tempi (2005) dello stesso don Agostino che i giovani fra i 16 e i 25 anni rappresentano oggi una generazione del consenso, lontana anni luce dalle utopie degli anni ’70, ma anche dal mito del privato degli anni ’80. Giovani che aderiscono acriticamente agli orientamenti valoriali degli adulti, e che nel contempo indulgono alla divinizzazione dell’immagine, alla sbobba del grande fratello e delle veline. C’è contraddizione? Non direi: anche molti genitori condividono questo culto dell’apparire, per non parlare di certa sottocultura pseudogiornalistica, affannata ad analizzare tendenze e look di piccole star di provincia.

Quando rileggo Apologia di Socrate, il disgusto di Socrate per la politica, o meglio per un certo tipo di politica opportunistica - che anni fa poteva suonare come positivo invito rivolto ai giovani a distinguere fra i vari uomini politici quelli che si occupano del bene pubblico da quelli che hanno in vista solo il proprio interesse egoistico - mi sembra che tocchi corde oggi troppo sensibili e forse pericolose. Non è il caso di insistere nel denigrare l’impegno politico quando ci rivolgiamo a giovani che già se ne disinteressano completamente. E non tanto per ciò che qualche anno fa si definiva il divario fra paese reale e paese legale, ma per colpa di una malattia ben più grave: un’accidiosa indifferenza che sta causando il ben noto fenomeno della gerontocrazia. Non sarà forse perché abbiamo dimenticato quell’entusiasmo che nasce dalla ricerca della verità e della giustizia? Se così fosse, si potrebbe tentare di rianimarlo proprio utilizzando gli strumenti della tecnologia che certo non sono neutri e anzi potrebbero danneggiare le relazioni interumane, ma potrebbero anche riagganciare l’interesse dei ragazzi, come si è visto all’incontro del primo festival di filosofia con Maurizio Ferraris e la sua ontologia del telefonino. Stiamo attenti a non demonizzare computer e cellulari, come negli anni ’50/’60 hanno fatto alcuni intellettuali rispetto alla televisione, con la disastrosa conseguenza di lasciarla nelle mani dei produttori di spazzatura. Perciò accolgo con grande interesse la proposta di Giacobbi di una serata del “Caffè filosofico” dedicata a “Filosofia e oggetti tecnologici”.

A proposito, l’immaginazione è poi andata al potere?

Data: 22.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: A GIORGIO TROGU

Il prof. Trogu nella sua bella lezione magistrale al Caffè Filosofico di lunedì 8 gennaio 2007 (ancora grazie), ha molto opportunamente insistito sul fatto che la nostra conoscenza non è determinata solo dalla ragione, ma vi intervengono altre facoltà di natura psicologica, emotiva, creativa ecc. Ha però anche ripetutamente affermato – a fronte di qualche intervento che intendeva riproporre l’importanza comunque della ragione –che la ragione è in ogni caso la pre-condizione per ogni forma di conoscenza. Molto bene. Anche qui però occorre intendersi preliminarmente sul significato delle parole. Per “ragione” si intende solitamente l’azione della nostra mente in termini di operazioni mentali di carattere sillogistico, o di collegamento fra elementi diversi di natura empirica, attraverso meccanismi mentali specifici come il rapporto causa-effetto, alcune forme di analogia, ecc.

C’è però un modo ulteriore di intendere la ragione, secondo la sintesi pensiero-essere dell’idealismo, per cui la ragione così intesa è la necessaria manifestazione del pensiero originario, apertura alla realtà e in questo modo immediata applicazione ineludibile del principio di identità (o di non contraddizione). In questo senso l’idealismo dice che l’essere è lo stesso che pensare dal momento che il pensiero è il modo e “la legge” secondo cui necessariamente si manifesta l’essere. Così va intesa, credo, l’espressione pre-condizione riferita alla ragione. Tutte le altre forme di conoscenza a qualsiasi soggetto si riferiscano (fosse anche Dio) non possono prescindere dall’apertura all’essere in cui consiste il pensiero. Il pensiero-ragione è la condizione necessaria e sufficiente perché l’essere sia: mancando questa c’è il nulla, non c’è nulla. Ecco perché, allora, la crisi determinata dalla civiltà tecnologica non si può pensare di superarla attraverso gli strumenti della stessa tecnologia, tipo: “la tecnologia inquina, la tecnologia disinquinerà” (né tanto meno è possibile immaginare un impossibile ritorno alle età pre-tecnologiche). Solo quando la civiltà della tecnica, spingendo e realizzando fino in fondo le sue stesse potenzialità, mostrerà la propria autocontraddittorietà, solo allora avvertiremo il bisogno di una reale e più avanzata alternativa.

Data: 22.06.2013

Autore: Secondo Giacobbi

Oggetto: Riflettendo

Riflettendo sull'efficace e appassionata relazione di Giorgio Trogu, arricchita dagli interventi degli ascoltatori, propongo a mia volta, a freddo, qualche spunto.

Il discorso di Giorgio è stato chiaro: il suo non è irrazionalismo che nega la razionalità; il relatore ha piuttosto affermato l'erroneità di ridurre il processo conoscitivo al razionalismo tecnico-scientifico quale si è imposto in Occidente a partire dal 1600. La ragione non è una funzione "in sé" della mente, ma è un modo di organizzarsi della mente nel suo rapporto con la realtà ( esterna e interna ). La ragione non è dunque necessariamente solo razionalistica e tantomeno lo è nei termini della ratio tecnico-scientifica. Se così fosse il pensiero filosofico anteriore alla rivoluzione scientifica avrebbe validità solo nella misura in cui può essere validato in termini razionalistici. Sarebbe un'assurdità sostenerlo! Sarebbe come dire che Platone, che interroga il mito per dar voce alla ricerca del Vero, fa un uso esclusivamente narrativo del mito oppure lo usa come mero rivestimento metaforico. Ma il mito non è una metafora , esso è una fonte autonoma di conoscenza, diversa dalla ricerca empirica, dalla deduzione logica e dalla prova sperimentale. E così il simbolo, che è esso stesso un processo attivo di conoscenza, e non un precipitato di conoscenza consensualmente acquisita (segno). La bandiera è un segno che tutti riconoscono, l'eucarestia è un simbolo di cui nessuno, neppure papa Ratzinger, può dire di possedere interamente il senso, in quanto questo non è univoco, chiuso, definitivo.Potremmo dire che il segno è monoteistico e il simbolo è politeistico. D'altra parte ogni simbolo rinvia, in ultima analisi, all'area del sacro, e questo, alla dimensione della Divinità; la quale non può che essere Uno e Infinità, e quindi intrinsecamente inconoscibile (come ci ha ricordato Giorgio Trogu).

E' questo l'unico modo,a mio avviso, per risolvere la contraddizione dei monoteismi,che da un lato affermano l'unicità di Dio e dall'altro, facendo coincidere tale unicità con la propria rappresentazione della divinità, si espongono al rischio del dogmatismo e del fondamentalismo. Mi ha sempre fatto sorridere il fatto che formichine lillipuziane, che vivono su di una minuscola briciola dell'universo sconfinato, litigano tra di loro, nella pretesa di ciascuna di esse di sapere "chi" e "che cosa" è Dio unico e vero.

Quindi nessun monoteismo della ragione, tanto meno della ragione scientista, ma neanche un irrazionalismo che neghi la ragione, pur nei suoi limiti.Se posso fare riferimento al mio sapere locale, la psicoanalisi, vorrei sottolineare che la pratica analitica cerca, a suo modo, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, di muoversi dialetticamente tra le due giustapposte polarità del conoscere.Da un lato il pensare cosciente,logico, diurno; dall'altro lato il pensare inconscio, onirico, notturno. L'uno ha bisogno dell'altro affinchè l'uomo si possa conoscere nella sua doppiezza e nella sua contraddittorietà.Tra le due forme di pensiero è senz'altro più importante, in termini di gnosi ( quanto meno perché più esteso, più antico, più legato al corpo e agli aspetti profondi ed arcaici della mente) il pensiero inconscio, archetipico ( direbbe Jung). E tuttavia senza il pensare del giorno cioè cosciente e logico-razionale,l'altra forma di pensiero sarebbe irraggiungibile. Provate a pensare a cosa accade in una seduta analitica: l'analista e il paziente riflettono insieme,pazientemente, senza fretta,ad esempio proprio su di un sogno.E tuttavia entrambi sono desti e coscienti; se fossero addormentati, non potrebbero riflettere insieme! E ciò nonostante il loro modo di comunicare e riflettere, per quanto desto e cosciente, è fortemente caratterizzato in senso "onirico" ( e cioè si basa su associazioni libere, immagini, ricordi, emozioni, fantasie), come ci ha insegnato Freud.

Quanto alla TV e a certi usi del computer, Giorgio Trogu, che mi ha interpellato al riguardo nella sua relazione, ha perfettamente ragione. Il loro danno è incontestabile e molto superiore ai vantaggi e ai benefici che essi offrono o sembrano offrire.Ciò appare evidente a che sappia porsi in una prospettiva sapienziale e spirituale di riflessione sul mondo; ma è stato accertato anche da ricerche scientifiche e da numerosi dati sperimentali, sui quali non posso soffermarmi qui.Concludo su questo punto con un'ultima considerazione: è una grande illusione degli uomini pensare che gli oggetti tecnologico siano, di per sé, neutrali, e che essi possano essere "buoni" o "cattivi" a seconda di come vengono usati. In realtà gli oggetti non sono inerti; essi sono il precipitato vivo di vivi processi di produzione sociale e di riproduzione ideologica; essi, quindi condizionano e riorganizzano i comportamenti umani e gli atteggiamenti mentali, e spesso lo fanno in un modo distruttivo e patologizzante.Potremmo pensarci su in una futura serata filosofica ("filosofia e oggetti tecnologici" ? Ciao a tutti.

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