IL RELATIVISMO CULTURALE IN ETNO-ANTROPOLOGIA - AUTORE: DON MARCO LUNGHI

13.11.2006 21:00

“La misura del bene e del male non è la coscienza del singolo individuo ma l’intera comunità alla quale egli appartiene (Protagora)”. Da questa teoria sono derivate numerose tesi secondo le quali i valori e le regole di condotta adottate da un determinato gruppo sociale sono legate a specifici bisogni e non a motivi di necessità e assolutezza. Si tratta del Relativismo etico discusso in filosofia e notoriamente respinto dalla Chiesa cattolica. Nel corso del XIX secolo, il prevalere della corrente evoluzionista indusse a credere che esistessero popoli provvisti di cultura e altri privi di essa.

Per difendere la dignità delle culture primitive che venivano indicate come esistenti ad uno stato inferiore di evoluzione, si sviluppa all’inizio del 900 la così detta scuola americana del Relativismo culturale. Il contributo molteplice del lavoro di gruppo portò sempre più alla convinzione che non si potesse giudicare una cultura inferiore o superiore ad un’altra, ed alla conclusione che le leggi della coscienza non provenissero dalla natura ma dalla consuetudine considerata fonte assoluta del diritto.

Gli individui acquisiscono la cultura e le personalità dominanti di una determinata società: veicolo di questo processo acculturativo è l’educazione.

Nonostante i suoi aspetti positivi (apertura alla molteplicità, apprezzamento dell’alterità, esclusione del razzismo e dell’etnocentrismo) il Relativismo culturale non è sfuggito a critiche severe.

L’alternativa che rimane all’Antropologia culturale odierna è quella di un Relativismo meno rigido di fronte alle aperture progressive del dialogo orientato alla ricerca di un sapere cumulativo e comunicabile tra le culture.

 

 

Definizione del “relativismo”: non esistono principi assoluti (validi ovunque e per sempre) ma norme legate alle condizioni individuali. La conoscenza umana non coglie la verità in sé, ma solo aspetti soggettivi.

E’ l’atteggiamento tipico della pluralistica società di oggi, dove convivono verità equivalenti per la libera scelta di ognuno.

L’uomo moderno accetta (di massima) la norma della sua cultura : il culto (o la dittatura?) del consenso .

Concezione etica: scetticismo, criticismo, empirismo.

Le norme di condotta sono legate ad esigenze contingenti e non a norme oggettive: non sono immutabili ma corrispondenti ad esigenze storiche.

Due concezioni morali: divina e sociale.

  1. Istituzione divina o naturale di tipo metastorico, indipendente dagli uomini.

  2. Frutto di libere volontà che si danno norme per vivere ordinatamente

Principi contingenti eretti ad assoluti ( gli individui non sono relativisti).

Metà del secolo scorso (anni dal ’20 al ’40) - (l’inizio ufficiale dell’Antropologia è del 1800)

Reazione all’evoluzionismo: - tutti i popoli a processo storico ascendente ( - passaggio indebito dall’a-logico al razionale ) - I popoli primitivi come il grado inferiore dell’evoluzione.

Reazione al razzismo hitleriano della superiorità di una razza su un’altra.

Reazione all’etnocentrismo europeo come vertice e paragone per gli altri.

Tramonta lo studio diacronico tipico delle origini (Evoluzionismo - Diffusionismo) per lo studio sincronico (Funzionalismo)

Studio degli aspetti dinamici (acculturazione)

Interpretazione delle diversità culturali e rifiuto di universalismo minoritari: col riconoscimento della molteplicità culturale e rifiuto degli universalismi

Influenza di Splengler: unità biologica generale – varietà culturale – Morale: le leggi della coscienza sono culturali e vengono trasformate in norme sacrali: non vengono dlla natura ma dalla consuetudine. Universalità dei bisogni, diversità di risposte: così un comportamento è morale per alcuni e non per altri. Superamento funzionalistico (Levy Strauss)

La scuola americana

Il metodo “sul terreno”

Ogni cultura possiede una logica interna che giustifica le credenze e la prassi.

La ricerca deve individuare la spinta etnica dominante, che costituisce il substrato teorico dell’agire umano.

La fonte dei comportamenti viene assimilata in modo inconscio con l’educazione ( i modelli culturali).

Il rischio che i modelli possano trasformarsi in stereotipi; che subentri la incomunicabilità delle culture, che si escluda un sistema morale obbiettivo.

Influenze: -Dilthey: le culture si raccolgono intorno a modi particolari di concepire il mondo.

Se alla base della cultura c’è un modello specifico, anche le sue manifestazioni risultano tali.

Modello psicologico che riguarda la famiglia, la religione, la cultura ( rimorso, tabù, cultura secondo Freud)

I rappresentanti.

R.F. Benedict (1887-1948) “Modelli di cultura”

C’è un temperamento umano di gruppo (substrato psico-ideologico) in base al quale acquista fisionomia culturale

Scelta del proprio modello tra gli aspetti dell’arco culturale (limite al Funzionalismo)

.Il modello è una forza che plasma gli uomini.

Substrato che lega i vari elementi culturali dando loro forma e valore

M. Herskovitz (1895 – 1963) “Man and his works”

Confermazione culturale che fa assumere ai popoli caratteri propri.

Ogni cultura varia ma trova giustificazione al proprio interno.

Nessuna superiorità fra le culture perché funzionali a se stesse. Nessuna imposizione reciproca.

Convinzione etnocentrica frutto della acculturazione infantile.

Favorire l’integrazione sociale . Difesa delle differenze culturali (diritti umani)

M. Mead ( 1901 - 1979) “Adolescenza in Samoa”(1928)

(l’antropologa più letta)

La madre, i docenti, l’esotismo insulare, lo studio dell’adolescenza (nelle isole Samoa)

L’adolescenza comporta crisi che non sono di natura biologica (universale) ma culturale.

(Capacità divulgativa per i non addetti ai lavori)

Una educazione rasserenante giova nonostante i tabù religiosi

L’assenza di crisi adolescenziale motivato da metodi educativi diversi rispetto all’Occidente.

Rapporti tra i modelli culturali, i mezzi inconsci dell’educazione e le personalità dominanti.

 

“Chi non è soddisfatto di se stesso diventa psicologo; chi non lo è del proprio sistema sociale diventa sociologo; ma chi è in polemica con sé e la società diventa etnologo”
(M. Mead)

 

Lo scienziato non è colui che fornisce le risposte esatte, ma chi sa porre le domande giuste
(C. Lévi Strauss)

 

Argomenti

Le conoscenze assolute e la presenza di realtà trascendenti derivano dal fatto religioso rivelato, che peraltro non esclude l’intervento della ragione.

La soluzione del rapporto universalità-diversità sta nelle verità assolute rivelate dal fatto religioso ( quindi non direttamente accessibili all’uomo che è condizionato dalla limitatezza). Tali verità danno un senso (ultimo, teleologico) al percorso della conoscenza.

Il percorso conoscitivo è acquisto di verità parziali nel quadro di tendenza al perfezionamento.

Il principio di tolleranza ha in sé un rischio: quello di portare alla amnesia dei valori e alla confusione della propria identità.

Le culture chiuse hanno contraddizioni interne e aperture verso l’esterno. Il concetto di cultura è destrutturato (razza-identità) Oggi prevale il concetto di “cittadinanza”.

Cultura come risposta peculiare alle esigenze della natura. Diventa civiltà quando si è di fronte a modelli costitutivi della identità ( i primi discutibili, i secondi intoccabili = es. valore della vita)

L’emigrazione e l’immigrazione (la globalizzazione) ci induce a fissare i modelli nostri da rispettarsi da parte degli estranei. Non basta riconoscere la diversità: ci vuole “tolleranza, rispetto e interesseper le culture –altre-”.

Diritti umani: di origine occidentale e come tali limitati, salvo per valori superculturali per i quali esistono dichiarazioni di principio valide per tutti gli uomini.

Dibattito

Data: 22.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: Provocazione: e se il “multiculturalismo” fosse una bufala?

Ho ascoltato con viva attenzione l’ultimo dibattito, troppo breve per il mio interesse. Non è stato un tema fra gli altri. Oggi è il tema. Un tema massacrato da tonnellate di buoni propositi regolarmente inutili e buonismi fintamente pacifici, agitati da schiere di intellettuali burocrati del politicamente corretto che abusano di termini nobili come tolleranza, democrazia e liberalismo, disconoscendone il reale significato. Non è stato il caso degli interventi ascoltati, eccezion fatta per il lieve disappunto che ho provato quando ho appreso che la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo sarebbe un “prodotto occidentale” forzatamente calato dall’alto, che anche quando sancisce il diritto all’istruzione (Articolo 26) non farebbe altro che reiterare il proprio etnocentrismo. Mi domando che tipo di modello educativo dovremmo dare ai bambini di tutto il mondo, se non fondato sul diritto alla conoscenza. Non capisco dove certe prese di posizione vogliono andare a parare, al di là della sottile abilità retorica che indaga nelle pieghe dell’apparentemente ragionevole per finire con l’intorbidire le acque, cavalcando la moda di un antioccidentalismo un po’ snobistico che non si cura di strapazzare il buon senso. Questo atteggiamento è molto cinico: l’Occidente ha in qualche modo “vinto” nella storia recente, quindi detta le regole; nessun’altra considerazione sostanziale può avere pretese al di fuori di questo dato di fatto contingente, malvisto solo perché sarebbe “imposto”. Pare che nessuno al mondo detesti se stesso come l’occidentale contemporaneo: un uomo che odia la propria libertà e se ne vergogna, non la sa prendere sulle spalle e finisce con l’autoflagellarsi: che tristezza. Abusa della propria ragione, la male indirizza, dilapida la propria identità (che è tutto sommato ben definita, a meno che istituzioni democratiche, libero pensiero e scienza non si considerino che meri accessori) soccombendo a chi ne ha una ipertrofica.

Lo dico nel modo più brutale: non credo nel “multiculturalismo”. Eresia! Questa posizione va argomentata, se non voglio cadere vittima delle sentinelle guardiane del corretto pensiero, largamente più intolleranti e dogmatiche dei presunti reazionari verso i quali le medesime indirizzano i propri strali.

Esistono a mio modo di vedere due accezioni di “multiculturalismo”. La prima è banale, perché va interpretata in senso lato, non ideologico e intellettualmente sereno, non corrispondente ad altro che nella tradizione liberale va sotto il nome di “Società Aperta”. “Aperta” a tutte le idee, tradizioni, approcci, culture senza alcuna distinzione discriminante che non sia l’appartenenza al genere umano, nella convinzione che quest’ultimo sia accomunato da tensioni, aspirazioni e ragioni comuni. La seconda accezione è la caricatura della prima: schiavo inconsapevole di una forma mentis che estremizza un egualitarismo vagamente giacobino e livellante, psicologicamente mai emancipato dai ricordi scioccanti della barbarie nazista che si ergeva sul credo tribale dell’annientamento del diverso, succube della propaganda decennale del marxismo anticapitalistico che si è fabbricato le fanfaluche astute dell’antimperialismo e del terzomondismo in chiave antioccidentale (riversando sull’Occidente liberale in modo patentemente menzognero i propri peccati), l’Europeo contemporaneo esorcizza i suoi traumi storici con una nuova fede, apparentemente inattaccabile: “multiculturale” è bello – e chi non ci crede viene relegato nell’infima categoria dei beceri fascistoidi razzisti.

Il mio scetticismo – che riguarda solo la seconda versione di cui sopra – è presto spiegato. Metto da parte le influenze filosofiche e psicologiche concrete per sottolineare che non può affatto esistere una società multiculturale nella quale ciascuna comunità componente - identificabile in virtù di una interna omogeneità e coesione che la distingue dal contesto nel quale è inserita - non faccia proprie istanze comuni che garantiscano la pacifica convivenza e le normali transazioni comunicative, escludendo al contempo la legittimità di dimensioni parallele che sospendano o sostituiscano il diritto. Il relativismo culturale spinto crede che non esistano ragioni per cui si possa interferire – nemmeno esprimere giudizi – su tali comunità, pure accolte in virtù di princìpi che di per sé restano intoccabili, lasciando a non specificati organi istituzionali il compito di attuare le altrettanto male specificate operazioni di integrazione. L’unico risultato pratico di tale superficialità non può essere che la creazione di ghetti, e l’Europa – pur con modelli apparentemente diversi, vuoi “assimilazionismo” francese o l’opposto multiculturalismo vagamente menefreghistico inglese – ce li presenta ormai ovunque, continuando a trattarli come problemi di ordine pubblico. Contraddizione evidente, conseguenza di ordinamenti liberali di apertura semi-incondizionata è la creazione di isole conflittuali di uomini e donne che percepiscono la società che li accoglie come un’entità aliena, portatrice di valori altri. Fortunatamente, la grande maggioranza degli uomini e delle donne di questo mondo ha altro da fare che odiarsi, ma non è sempre e ovunque così. Fa parte dell’atteggiamento alla moda dividere il mondo in oppressi ed oppressori, con i primi sempre e comunque dalla parte della ragione, ed i secondi sempre e comunque dalla parte del torto e viventi nell’emisfero nord-occidentale (prendo a prestito questa battuta da Alain Finkielkraut); l’accoglienza che quell’emisfero cerca di dare in virtù delle proprie leggi a esseri umani che provengono da luoghi in cui non viene rispettata la loro dignità, la loro vita, la loro libertà è messa sotto accusa da chi vede che l’integrazione provoca enormi problemi, semplicisticamente spiegati sulla base di una presunta xenofobia di ritorno, di una presunta incapacità di dare uguali diritti nonostante le intenzioni dichiarate, di una presunta mai sopita aggressività culturale e militare verso il mondo esterno di cui si deve espiare eternamente la colpa. La realtà poco esaltante è che se esistono diversità – vivaddio – è per una ragione davvero lapalissiana: persone diverse vivono e sono immerse in mondi ideologicamente diversi, e questi sistemi di idee possono anche essere irrimediabilmente incompatibili, nonostante i disperati tentativi di evasione da questa deprimente conclusione. Si potrà obiettare che è ovviamente una questione di grado, e se tra mille diversità ve ne sono poche potentemente conflittuali, è dovere morale operare per tenerle sotto controllo, senza venir meno alle garanzie dello stato di diritto. Assolutamente d’accordo, ma rispondo a questa obiezione con un passo di Karl Popper, scritto in esilio mentre il mondo era messo a ferro e fuoco da autentici imperialisti e da un invasato antisemita che conquistò il potere a seguito di elezioni democratiche: «Se estendiamo l’illimitata tolleranza anche a coloro che sono intolleranti, se non siamo disposti a difendere una società tollerante contro gli attacchi degli intolleranti, allora i tolleranti saranno distrutti e la tolleranza con essi.». A molti questa presa di posizione parrà estrema e di difficile applicazione, ed è probabilmente vero. Il dramma è che una sua possibile attuazione pratica si espone fatalmente al sempre presente rischio di allontanarsi dai princìpi che in realtà fondano la stessa società tollerante, e la linea di demarcazione fra intolleranza tollerabile e intollerabile è difficilmente scovabile, se mi si passa il gioco di parole. Consiste in questo, a mio avviso, la vera grande sfida. Tuttavia, credo che esistano, oggi, almeno due indicazioni che si possono fornire per cercare di attaccare questa “questione mortale”, e sono sommamente felice che, verso il termine dell’ultima serata, queste siano di fatto emerse.

Se mi si chiede a cosa presterei attenzione nel valutare le idee di chiunque volesse discutere – chi non vuole nemmeno discutere e sfodera la spada è per definizione un intollerante, credo che su questo si possa convenire - , porrei l’accento su due aspetti: come l’interlocutore valuta la vita umana e come considera il suo diritto ad essere libera. In prima istanza – vi è ovviamente ancora molto su cui riflettere – porrei questo come un ottimo punto di partenza (teorico). Niente di nuovo o particolarmente brillante (un noto giornalista italiano di origine egiziana, condannato letteralmente a morte dai nuovi predicatori di una vecchia società chiusa, lo grida da anni al vento); tuttavia, guardiamoci intorno, investighiamo ciò che gli uomini nel mondo producono in termini latamente culturali, e troviamo che i due paletti di cui sopra tutto sono meno che banali. Il sacerdote l’ha detto: come deve atteggiarsi il relativismo culturale di fronte al rispetto per la vita e alla tutela dell’integrità della persona? In modo intransigente, rispondo io. E questo è tutto (scopro l’acqua calda, perché altro non è che l’Articolo 3 della già citata Dichiarazione Universale, prodotto “unilaterale” del corrotto Occidente democratico). Se questo è un buon punto di partenza, qualunque cultura o tradizione che depenalizza formalmente ed eticamente un omicidio, per qualunque ragione, in una società aperta non ha diritto di cittadinanza (per “cittadinanza” intendo ammissibilità dal punto di vista intellettuale, se non pratico). Se nell’indagine questo dovesse risultare chiaro, a poco dovrebbero servire sofismi e acrobazie mentali per salvare l’insalvabile. Benissimo: il padre che uccide la figlia “che vuole vivere all’occidentale” è un criminale, non l’espressione di una “forte identità religiosa” per la quale concedere attenuanti, come una altissima personalità politica italiana già massima carica dello Stato è arrivata a sostenere.

Tutto ciò che precede è volutamente scevro da esempi concreti – a parte l’ultimo riferimento abbastanza chiaro dalla cronaca recente. Avrei potuto riempire un volume, ma non è il caso di aprire le botteghe degli orrori, anche perché il tono della discussione si abbasserebbe drammaticamente. Non ho intenzione di sminuire i meriti dell’impostazione relativistica in antropologia – finchè il relativismo come atteggiamento conoscitivo è sano e moderato, è anche proficuo in sede scientifica, nell’ottica di una sociologia comprendente. La sua estremizzazione, però, è esiziale: già Bertrand Russell scrisse che l’atteggiamento relativistico fa cadere le ultime barriere per arginare il totalitarismo, stemperati o persi i criteri per riconoscerlo. Segnali sempre più forti mi fanno sospettare che l’Europa abbia capito poco dalle proprie catastrofi, sorvegliata e punita da censori interni ed esterni per non farla deragliare dai binari del proprio pappagallesco ideologismo, sapientemente sfruttato da chi ha ben altre intenzioni che l’amorevole convivenza “multiculturale”.

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