IL RELATIVISMO: UN APPRODO DAVVERO INEVITABILE? - RELATORE: STEFANO MORIGGI

12.09.2005 21:00

Dopo la morte di Dio annunciato da Nietzsche, dopo le svolte scientifiche del Novecento che hanno messo in crisi il dogma di una scienza assoluta, dopo il crescente emergere di contrasti di fondo su tematiche di etica e di bioetica,

  • c’è ancora spazio per dei valori assoluti e, quindi, universali, per dei punti di riferimento sicuri, indiscutibili, oppure tutto è “relativo”?

  • c’è ancora spazio per valori “umani”, fondati sulla “natura umana” e chiari e distinti alla “ragione” che è “comune” a tutti gli uomini?

  • si può parlare di “natura umana” o la stessa natura è qualcosa di “artificiale” in quanto “costruita” con categorie culturali?

  • c’è qualche affermazione “vera” (al di là di vuote tautologie e della cosiddetta verità fenomenologia – è indiscutibile che qualcosa in questo istante appaia -) o tutto è “storico”?

  • c’è qualche teoria “vera” o tutto è “fallibile”?

  • è possibile difendere l’“assolutismo” con la semplice critica che il relativista si contraddice perché afferma una verità assoluta?

  • è possibile giungere ad una definizione “vera” di uomo che riesca a includere tutti gli individui che convenzionalmente chiamiamo “uomini”?

  • c’è un modello di società organizzata “razionale” e quindi da esportare (magari con le armi), oppure ogni modello – anche la forma più feroce di fondamentalismo – ha lo stesso valore degli altri in quanto espressione di un tipo di cultura e di tradizione?

Da qualche tempo è in corso una vera e propria campagna contro il “relativismo”. A condurla in Italia sono, in primis, Joseph Ratzinger e Marcello Pera (si veda, ad esempio, il loro saggio a due mani Senza Radici; si veda il recente intervento di Pera al Meeting di Rimini): una campagna in nome di valori fondanti, razionalmente indiscutibili.

È questo, sostanzialmente, il tema che affronteremo nei primi appuntamenti del Caffè filosofico nel 2005-2006: è inevitabile o no l’approdo a cui è pervenuta, in grande parte, la cultura attuale, vale a dire la consapevolezza che non vi sono più “assoluti” (in nessun ambito), ma tutto è “relativo” e tutto è “fallibile”?

La storia del pensiero occidentale è un susseguirsi di momenti di grande fiducia nella ragione e di forte scetticismo. Ora, sulla scorta di tale storia, si può credere che, prima o poi, lo scetticismo oggi vincente verrà vinto, oppure siamo arrivati a un punto di non ritorno nella consapevolezza, dopo tante sbornie filosofiche e scientifiche, che le cosiddette Verità sono pur sempre delle semplici “costruzioni” umane?

È corretto, poi, sostenere che il “relativista” sia necessariamente portato a mettere sullo stesso livello di dignità culturale e morale qualsiasi punto di vista, a giustificare, in altre parole, tutto? Anche in assenza di criteri assoluti, non è possibile distinguere perfettamente “opinioni” o “convenzioni” “più convincenti” – vedi i valori liberal-democratici – rispetto ad altre, differenti, “opinioni” o “convenzioni”? Si può, in sostanza, essere relativisti e, nello stesso tempo (a differenza di quanto affermano Ratzinger-Pera), “amare” l’Occidente?

È possibile, inoltre, costruire – come auspica Pera – una democrazia che non sia fondata sul mero consenso (sul semplice conteggio dei voti), ma sul “bene”? Chi indicherebbe questo “bene”? L’élite dei “migliori”? E chi sarebbero questi migliori?

Il semplice “consenso” su cui si basa la democrazia ne rappresenta il suo punto “debole” o il suo punto “forte”?

Si tratta di una tematica di grosso spessore che sicuramente appassionerà i soci del Caffè filosofico che potranno confrontarsi sia con pensatori “deboli”-“relativisti” (ad esempio il filosofo G. Giorello – che ha risposto a Ratzinger-Pera con Di nessuna chiesa - o Vattimo) sia con pensatori “forti” ( non solo quelli con lo sguardo rivolto al passato, ma anche profondi innovatori come Emanuele Severino).

Abbiamo anche considerato – su suggerimento di alcuni nostri affezionati interlocutori - che dalla concezione relativistica della filosofia (probabilmente maggioritaria oggi fra i filosofi), sono derivate applicazioni pratiche le più diverse, secondo l’idea che la filosofia del nostro tempo deve pur servire a qualcosa…(!?)

E così al seguito della espressione “consulenza filosofica”, si sono applicate le categorie della filosofia a diverse attività: produzione e commercio di beni, tutela della salute, cura dell’ambiente, ecc. Cercheremo di approfondire anche queste “derivazioni” (deviazioni?) della filosofia classica ampliando in tal modo il nostro campo di dibattito, di ricerca e di volontà di comprende.

 

Il prof. Stefano Meriggi, trentatre anni, storico e filosofo della scienza, lavora attualmente presso l’Università degli Studi di Milano. Si occupa di teorie e modelli della razionalità, con particolare attenzione al confronto tra culture e forme di vita differenti. Membro del comitato scientifico dell’ International School for the promotion of Science, collabora da anni con il Piccolo teatro di Milano. Allievo prediletto di Giulio Giorello con il quale collabora quotidianamente sia dal punto di vista accademico che ai molti lavori scientifici ed editoriali.Per Bompiani ha pubblicato il suo primo libro, “Le tre bocche di Cerbero” sul caso delle streghe di Triora nel pieno della Santa Inquisizione.

 

 

 

COMUNICAZIONE RIASSUNTIVA DI SARA ARRIGONI

CLASSE V° A

LICEO SCIENTIFICO LEONARDO DA VINCI, CREMA

 

Stefano Moriggi, trentatreenne storico e filosofo della scienza presso l’Università statale di Milano, ha aperto, lunedì 12 settembre 2005, la nuova stagione del Caffè Filosofico con le proprie opinioni e considerazioni sul “relativismo culturale”, tema-filo conduttore della stagione stessa.

Il suo pensiero è stato qui riportato in chiave dialogica, perché possa risultare più accessibile e lineare.

 

I figli del relativismo sono il prodotto della nuova filosofia?

Non è così, perchè il relativismo è la filosofia.

Aristotele diceva che la filosofia è la risposta ad un atto di meraviglia. La meraviglia di cui parla il filosofo greco è una meraviglia che spaventa, a cui è necessario dare un nome e trovare una risposta. Vico ci parla di uomini primitivi, che di fronte al fulmine tremano e si stupiscono.

Il loro sbigottimento è una risposta di paura, perché loro non sanno che cos’è quel mostro, il fulmine. Il fulmine è percepito come ammonimento della natura, la quale vuol dire qualcosa; ma che cosa vuole dire?

La necessità di rispondere a quel qualcosa, scatenato da un evento incontrollabile, è la necessità di dare risposta a quella meraviglia di cui ci parlava Aristotele.

La filosofia dà un tipo di risposta a quella meraviglia che non è definita. E proprio per questo la filosofia non è relativista da adesso, non è una questione storica o culturale. Ma lo è costitutivamente, perché dà un tipo di risposta all’ignoto che non è data una volta per tutte, che non è estranea alla possibilità di essere rivista a monte di tesi contraddittorie rispetto alle precedenti.

Quindi la sua risposta non è assoluta, nella fattispecie una risposta assoluta si presuppone essere sciolta non solo rispetto a possibili contro-obiezioni, ma anche rispetto a possibili alternative.

La risposta della filosofia è, per definizione, finita.

 

Joseph Ratzinger, nella sua opera “Senza Radici”, scritta a quattro mani con il presidente del senato Marcello Pera, afferma :”il pensiero di cristiani e non cristiani è stata non di rado agitato da queste onde, gettato da un estremo all’altro dal vento dell’io e delle sue voglie, proprie del relativismo culturale. Avere una fede chiara viene spesso etichettato come fondamentalismo, mentre il relativismo appare come l’unico atteggiamento”.

Cosa ne pensa in riguardo?

 

Ma la filosofia è questo abbandonarsi a quell’io e a quelle voglie; perché quell’io e quelle voglie -se vogliamo restituire loro una dignità che questo testo non restituisce- possiamo chiamarli affetti, desideri, progettualità, volontà di dare senso alle cose, di rispondere a quella meraviglia, senza necessariamente ricorrere ad un risposta (usando le parole di Ratzinger) definitiva, ma se mai finita, definita dal rigore della capacità di formalizzare un concetto, dal rigore di una capacità di critica, perché tale capacità sa mostrarsi risolutiva, decostruttiva, propositiva e progettuale.

 

Quindi non siamo affatto -come Ratzinger sostiene- figli di questo “relativismo degli ultimi tempi”...

 

Forse siamo anche figli di certo amor platonico: viviamo di una conoscenza che siamo certi di non possedere fino in fondo e degli espedienti per raggiungerla, che sappiamo di non avere o di avere in maniera circostanziata, momentanea, contingente, effimera.

Chi prova a raggiungere questa conoscenza è già fuori; chi propone risposte o argomentazioni assolute non fa più filosofia.

 

Joseph Ratzinger parla di dittatura del relativismo. Ma ha senso dirsi relativisti parlando di relativismo culturale?

 

Dire di sostenere il relativismo culturale non ha senso, è come dire di sostenere l’esistenza di qualcosa che sappiamo esistere.

Infatti, prendendo l’aereo e andando altrove, sarà possibile vedere altre tradizioni, altre civiltà, che con una convinzione non inferiore alla nostra si riconoscono in stili di vita, credenze, credi religiosi o non religiosi con un entusiasmo, convinzione o scetticismo, paralleli ai nostri.

Che senso ha, quindi, dirsi pro o contro il relativismo?!

Il relativismo c’è, esiste. Esistono sistemi e genealogie di valori diversi dai nostri.

Negare il relativismo è negare l’esistenza di un ente.

Ma se non ha senso sostenere o no il relativismo dal punto di vista culturale, ha senso essere antirelativisti; perché essere antirelativisti -come Ratzinger è- significa negare la pari dignità a civiltà diverse.

E Benedetto XVI lo sostiene in maniera netta, esemplare e cristallina nel libro che ha scritto con Marcello Pera “Senza Radici”, dove, a fronte di un rispetto che va riconosciuto e di una tolleranza che è dovuta alle altre civiltà, esprime un giudizio di superiorità della civiltà cristiana rispetto alle altre.

Quindi l’antirelativismo, di cui Ratzinger è uno dei più accesi e nobili sostenitori, va colpito nella misura in cui esso coincide con una dittatura dei valori.

 

Perché l’antirelativismo andrebbe addirittura colpito?

 

Perchè è necessaria una battaglia nobile di valori, capaci di parlare alle coscienze dei singoli.

Infatti, se non parlassero alle coscienze dei singoli nascerebbe, appunto, una dittatura.

Dittatura che –però- non potrebbe mai coincidere con il relativismo (definito, per l’appunto, da Ratzinger dittatura del nostro secolo), poiché, per ragioni logiche prima che morali (come già detto), esso non lo può essere per propria costituzione strutturale.

Il ragionamento che si oppone all’antirelativismo ne fa, quindi, una questione di diritto, prima logico che etico, politico o giuridico.

Prendiamo per esempio la legge sull’aborto. Supponiamo che una persona sia tra quelle che gradirebbero una legge meno restrittiva rispetto all’attuale legge sull’aborto, ciò (che è un ragionamento logico, non morale) non implica per ciò stesso che tale persona sia a favore dell’aborto e che creda che una società con una maggior numero di aborti sia migliore di una società con un minor numero di aborti. Ma può anche implicare il fatto che questa persona all’aborto sia contraria e che la sua scelta esprima, semplicemente, la volontà di combattere contro leggi che contengano certe forme di restrizioni.

Non si combatte per il proprio valore: un cittadino potrebbe –parlando per assurdo- essere un esasperato sostenitore dell’aborto al limite dell’omicidio di massa, piuttosto che un rigoroso anti-abortista, ma non se ne fa una questione di morale, ma una questione di diritti dei singoli.

Ma parliamo ora di storia dell’arte.

Supponiamo di avere di fronte due quadri. Uno è il ritratto di una persona che conosciamo; guardandolo, è facile notare la corrispondenza tra il modello e la copia, l’adeguazione tra la realtà e la riproduzione della realtà.

Abbiamo, poi, un quadro cubista dove a mala pena s’intuisce la presenza di un soggetto definito.

Quale dei due quadri è il più realistico?

 

Penso che chiunque sarebbe portato ad indicare quello in cui la copia corrisponde maggiormente col modello.

 

Esatto. Ma di fronte a questo esempio un grande filosofo della scienza si è posto la questione in maniera davvero interessante, contrapponendo due modi di concepire la storia dell’arte.

Da una parte una concezione progressista, che concepisce una crescita in perfezione della forma.

Dall’altra parte una concezione che potrebbe essere considerata relativistica, secondo cui la storia dell’arte si muove attraverso una successione di stili, come fossero oasi, ognuno dei quali punta ad una perfezione interiore di forma, dentro cui si racconta un modo di vedere il mondo. Ogni stile sarebbe, dunque, espressione formale di una volontà artistica nella quale si testimoniano valori, riferimenti, credenze propri.

Se ci uniamo a quest’ultima prospettiva (relativistica) potremmo riabilitare alcuni stili rispetto ad altri, che erano visti, secondo la concezione progressista, come decadenza dei precedenti o anticipazione di quelli che le avrebbero portati al loro massimo compimento.

Il giudizio che si basa su una continuità, infatti, si esprime in base a specifici parametri di valutazione, la cui volontà artistica tiene sempre dentro di sè il proposito di dirci com’è il mondo, di dirci la verità al di fuori della prospettiva, di ambire a quello che Leibniz chiamava geometrale delle prospettive (oggetto che visto da qualsiasi punto di vista o da nessuno è sempre identico): un’oggettività inviolabile.

Dunque la visione relativista -diversamente da alcune intenzioni di un certa cultura, in cui la pittura ambiva ad essere scienza dell’occhio, scienza della riproduzione del mondo per come esso è- ci svela molteplici punti di vista, prospettive sul mondo, delle quali, però, nessuna sa mostrarci una verità assoluta.

 

Come potremmo fare, quindi, noi –ipotetici sostenitori di una concezione della storia dell’arte relativista- per potere essere in grado di dire qualcosa di vero sul mondo?

 

Dovremmo assumere delle categorie di giudizio estranee alle cose da valutare.

Non solo, dovremmo fare un passo ancora un po’ più indietro, estraniarci da qualsiasi criterio di giudizio, che di per sè è solamente prospettico.

Dovremmo chiamarci fuori da quella costellazione di credenze, da quel mondo storico, da quelle opzioni morali, da quegli estetismi, dentro cui siamo cresciuti, formati.

Dovremmo chiederci di essere assoluti, sciolti da ogni prospettiva, equidistanti da ogni opzione e paradigma di giudizio.

Solo a questo punto potremmo dire quale di quei due quadri è il più veridico, il più realistico.

Ma non è possibile chiederci di uscire dalla nostra pelle, dalle radici da cui siamo riprodotti e che vengono tanto rivendicate negli ultimi tempi.

Ma allora abbiamo delle radici o non ce le abbiamo?

Perché la questione è questa: se abbiamo delle radici, siamo relativisti; se non le abbiamo e siamo spuntati come funghi, abbiamo la speranza di avere un giudizio fuori dalle parti, fuori da ogni prospettiva, assoluto.

 

Quindi tutto sarebbe frutto di un’interpretazione. E la parola di Dio?

 

La stessa Parola di Dio è da interpretare!

Quante volte il cristianesimo ha avuto un’evoluzione del suo pensiero! Certo il Cristianesimo odierno non è quello che ha prodotto e predicato con coraggio e spirito di ribellione Gesù Cristo.

Quante evoluzioni, quante svolte. Bada, inevitabili nella misura in cui la lettura ed interpretazione non sono solo riletture ed interpretazioni, ma addirittura riscritture del testo.

Come può pretendere il credente, come può ambire -ancorché in forma istituzionale se la riconosca Ratzinger e chi l’ha preceduto- all’infallibilità dell’interpretazione?

L’interpretazione potrebbe essere una convenzione istituzionale, nella misura in cui il capo di un’istituzione abbia bisogno che la sua parola venga riconosciuta non nella sua autorevolezza (uguale a quella di uno studioso pari a lui), ma nella sua autorità, salvo che a costui si riconosca natura più che umana.

Il Cristianesimo non è spuntato come fungo, anche il cristianesimo ha delle radici. E difendere le radici cristiane significa, implicitamente, difendere ed approfondire la sua profonda eredità, il suo meticciato, ovvero la sua stratificazione di tradizioni e di idee che vengono da lontano; e che non sono affatto cristiane.

Possiamo ricordare, ad esempio, l’importanza della concezione platonica, plotiniana o neoplatonica. Esse sono state la culla di quello che poi è stato il cristianesimo, il quale progressivamente ha trovato, attraverso le varie interpretazioni, una sua specificità, una sua costituzione etica ed una sua imposizione politica. Che vanno conosciute ed esaltate (ma da chi le conosca, possibilmente).

 

Ratzinger ci dice che il relativismo sarebbe colpevole di non riconoscere più nulla di definitivo, termine nel quale, secondo il pontefice, si condensano vero e bene.

 

Il bene corrisponde ad una verità, ma non c’è bisogno del cristianesimo per affermare questo.

C’era un signore, un po’ prima di Cristo, che riteneva che il vero fosse conosciuto meglio dai filosofi, per la maggior idoneità della loro mente a ricordare le idee viste nell’Iperuranio.

L’analisi del vero dei filosofi, dunque, secondo il suo pensiero, sarebbe più capace rispetto ad altri; e questo li rende più adatti a gestire la cosa pubblica, il bene comune.

Chi conosce il vero opera il bene. Non è un caso che, in molta teologia, il tema della libertà coincida con il perseguimento del bene, a cui è legato il vero -che si dà come rivelazione.

Ma le frontiere più interessanti dello stesso dibattito teologico ci dicono che la rivelazione non è apertura, dispiegamento di un senso, ma è re-velatio cioè disvelamento attraverso un nuovo velamento; ovvero un’interpretazione.

Per il relativista il concetto di vero è, quindi, diverso: esso è una verità che non solo non promette salvezza, ma non è neanche in grado di garantire la salvezza a sè stessa.

Galileo, raccontato da Brecht, spiga al suo allievo: “Stai pronto a cancellare dalla lavagna quello che solo oggi hai scritto, salvo di scriverlo se lo ritroverai scritto nel libro del mondo”.

E’ una verità che deve essere disposta allo scacco. Questa è la regola; e non perchè siamo masochisti o suicidi, ma perché abbiamo consapevolezza dei limiti degli espedienti con cui lavoriamo e con cui si propone una verità controllabile, pubblica.

Non è una caso che proprio nel ‘600, come ha dimostrato Rossi, grande storico della scienza, le matrici della democrazia siano state applicate prima nelle accademie scientifiche che dentro le istituzioni statali.

 

La democrazia sarebbe quindi nata dall’insegnamento del sapere scientifico?

 

Si. La capacità di riconoscimento del sapere della scienza è una grande opportunità, non solo democratica, ma anche relativista: la scienza ci spiega che la democrazia, intesa come scontro critico (cosa che spesso si dimentica, soprattutto negli ultimi tempi), non sia riconducibile ad una regola di maggioranza, perché “non si decide dalla validità di una verità scientifica per semplice alzata di mano”, spiega Galileo.

La regola della maggioranza è la tirannia della maggioranza. E la tirannia della maggioranza è la tirannia di chi continua a pensare per valori.

 

Quindi la democrazia non necessiterebbe di fondamenti?

 

La democrazia ha bisogno di fondamenti, ma non indiscussi ed indiscutibili. Essa necessita soprattutto un valore etico, che potrà sembrare irriverente nella sua proposta: l’indifferenza.

L’indifferenza -si faccia attenzione- non coincide con incapacità empatica verso il prossimo, ma essa comporta che l’altro ed il suo modo di vivere non debbano essere giudicati attraverso la nostra prospettiva di valore. Se questa indifferenza, intesa in questo senso, venisse meno, allora forse si inizierebbe a pensare per valori, trovandosi nella dittatura di chi la propria radice la senta superiore e la invochi contro gli altri.

E questo è inaccettabile nella misura in cui si riconosca la democrazia come scontro critico. Ogni ipotesi ha il diritto al suo difensore pubblico, anche se minoritaria, ha il diritto a combattere ed avere una dignità.

Non ho una morale fissa, perché la nostra radice occidentale tiene insieme un suo vero ed un suo bene, e questi assomigliano poco alla risposta assoluta che si chiama fuori dal gioco, delle prospettive, dalle opinioni, dalle opzioni.

Chiudo con una bellissima immagine di Giordano Bruno.

Egli immagina di essere un pittore e di dipingere il libro del mondo. Inizia, così, il suo dipinto, rappresentando un meraviglioso scorcio naturale. Egli poi pensa: ” Il pittore può permettersi una cosa che io, cosmologo, filosofo della scienza, non posso fare: può, ad un certo punto della sua creazione, fare un passo indietro e vedere, ad una distanza diversa, se l’effetto visivo dell’immagine, restituito ad una certa vicinanza, sia fedele alla proporzioni della realtà.

Se io, studiando la natura dell’universo, facessi un passo indietro, continuerei a muovermi in un mondo di cui faccio parte. Ed ogni ipotesi che farei su questo mondo non escluderebbe me stesso, ogni mia radicale nuova conquista scientifica non potrebbe non contaminare le credenze che avevo”.

Noi, facendo esperienza del mondo, siamo pittori-cosmologi che non sono in grado di fare passi indietro, di chiamarsi fuori, di proporsi come assoluti.

Questo fa di ogni persona, che voglia assumere come suo stile di vita la capacità critica di confrontarsi con l’altro da sè, uno strutturale relativista.

Ogni correzione del vero chiama la nostra onestà intellettuale ad una paradossale modificazione del bene.

Stiamo dipingendo un quadro di cui siamo parte.

 

 

Dibattito

Data: 23.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: Un bel dibattito online!

Sono felice di essere stato “attaccato” nell’intervento di Silvio Agosti – in realtà ne ha avuto un po’ per tutti – le tesi sono fatte per essere criticate. Purtroppo non potrò essere presente al prossimo incontro!... La cosa comincia ad essere interessante, vista la partecipazione. L’unica cosa che non mi piace troppo è lo slittamento su territori troppo contigui alla politica, cosa che potrebbe far degenerare un discorso che deve restare di carattere filosofico.

In qualche modo mi aspettavo quel tipo di risposta. La filosofia c’entra eccome, dal momento che si sta parlando di visioni del mondo e dell’uomo. A grandi linee, trattasi delle due posizioni – la mia e quella di Silvio Agosti – che si contrappongono sui giornali, in televisione, nella saggistica. Sempre per sommi capi, trattasi di chi – nonostante tutto – è del tutto felice di essere nato e cresciuto nel mondo Occidentale, con tutto ciò che si porta dietro, e di chi invece indirizza l’occhio verso i suoi scheletri nell’armadio. Beh, io non ho la minima intenzione di nasconderli, quegli scheletri. Le accuse di chi insiste sui massacri delle crociate, sui soprusi del colonialismo, sulle follie derivate dalla logica della guerra fredda e sull’ingordigia del mostruoso G8 non suonano alle mie orecchie come una rivelazione che dovrebbe folgorarmi e farmi cambiare idea, anche perchè non mi è ben chiaro verso quale sistema ideologico dovrei migrare. Quale idea di giustizia? Quale idea di democrazia? Quale idea di libertà? Ebbene, le idee di democrazia, libertà e giustizia che io approvo sono già qui, e non ho bisogno di andare a cercarmele altrove. Certo, Moriggi direbbe che io sono immerso nelle mie radici e non potrei non approvarle. Sembrerà presuntuoso, limitato, magari persino dogmatico, ma conservo ancora quell’ingenuità di chi crede che da questa parte del mondo si possa perfino insultare Dio senza finire sulla forca, considerando che questo sia preferibile a quegli ordinamenti che condannano a morte un apostata. Codificare le leggi in modo da difendere determinati diritti non porta, ovviamente, al loro automatico rispetto, ma ne è la condizione necessaria: insistere pretestuosamente sulla loro violazione, che non è sistematica, non porta da nessuna parte. Chi voglia difendere l’Occidente in modo serio – per chi deliberatamente non lo ama, il discorso finisce qui - non dimentica certo le atrocità commesse in passato, ma questa non è una buona ragione per sputare sui risultati ottenuti dalla loro presa di coscienza e rielaborazione, tradotti nelle nostre carte costituzionali. Qualunque satrapìa orientale, di carte costituzionali, non sente nemmeno il bisogno.

So bene qual è l’obiezione. L’Occidente non può fare la morale a nessuno. L’atomica l’abbiamo sganciata noi, Dresda l’abbiamo rasa al suolo noi, i crociati eravamo noi, i colonialisti eravamo noi, gli affamatori di oggi siamo noi (mi si dovrà però spiegare perchè, per molti, noi coincide quasi sempre con Stati Uniti d’America – come se l’Europa fosse un ramoscello di pace e giustizia. L’antiamericanismo è una malattia durissima a morire perchè è solo un’ideologia: qualunque cosa accada, la responsabilità è americana. Punto e basta). Lasciando pure perdere le contro-obiezioni che si potrebbero muovere, la differenza sta sotto gli occhi di tutti. Un Noam Chomsky iraniano, saudita, iraqeno (sotto il partito Baath) o nordvietnamita starebbe dietro le sbarre oppure sottoterra. Un cineasta che si permettesse di ridicolizzare i Guardiani della Rivoluzione come Michael Moore ha fatto con il petroliere repubblicano sparirebbe all’istante, assieme alle sue opere. Sappiamo tutti che fine fanno quelli che osano chiedere maggiore partecipazione democratica in Cina o a Cuba. Io continuo a non capire come sia possibile non cogliere la differenza - che oserei dire ontologica - che corre tra chi codifica in una legge dello stato la parità di diritti fra omosessuali ed eterosessuali, e chi gli omosessuali uccide. Tra chi non considera nemmeno come degna di essere messa in discussione la libertà religiosa, e chi considera l’apostasia un reato penale. Tra chi considera l’accesso all’informazione un diritto costituzionale e chi mette i filtri su Google censurando parole come democrazia. Tra chi crede che a scuola si debba insegnare tolleranza e rispetto e chi sostiene e diffonde il lavaggio del cervello di masse incredibili di alienati identitari o potenziali terroristi attraverso luoghi di istruzione e culto (anche in Europa!). Insisto: gli scheletri nell’armadio li hanno tutti; la differenza è che l’Occidente li elabora, li smaschera, li condanna, li rende evidenti, e coloro i quali promuovono queste operazioni culturali scrivono libri, appaiono in televisione, vivono una vita normale, tutelati dal sistema che pure stanno criticando. Ciò vale per gli Stati Uniti ed Israele, non vale per un’infinità di altri paesi. Detto questo, sono io il primo ad essermi imbestialito per Abu Ghraib e Guantànamo. Ma, guarda caso, il primo scandalo è stato denunciato dall’interno, ed i responsabili cominciano ad andare in galera. Il secondo ha scatenato una serie di contestazioni di incostituzionalità e la sua chiusura è stata già annunciata. Di entrambi sappiamo abbastanza: non abbiamo saputo niente per tantissimo tempo dei gulag sovietici che un portavoce di Amnesty International ha voluto incredibilmente paragonare al carcere americano. Questo è un perfetto esempio dell’ideologia relativistica oggi dominante: una mostruosità storica che ha prodotto milioni di morti per decenni comparata ad un carcere attivo per pochi anni, noto a tutti, luogo di soprusi e certamente di qualche omicidio. Un’altra differenza essenziale: le “schifezze”, come dice Vattimo, in democrazia saltano fuori in tempi relativamente brevi (anche se molti insistono solo su presunte verità nascoste tipiche di una certa cultura complottistica). Stesso discorso per l’altro centro di detenzione, luogo in passato di tortura brutale ed assassinio sistematico, nemmeno lontanamente paragonabile a ciò che ha fatto un gruppo di Marines dementi. La loro patria li punisce, ed il Senato vara leggi che inaspriscono ulteriormente le pene. Le innumerevoli camere dell’orrore trovate in questi anni ed ancora oggi ad opera dei nuovi barbari non fanno notizia. Ai miei occhi lo squilibrio di giudizio è evidente. Anzi, mi pare addirittura che i difensori del sistema di valori occidentale siano spesso messi in minoranza, almeno mediatica: i ritornelli alla moda dànno U.S.A. e Israele come il vero Axis of Evil – davvero curioso, quando il nuovo leader persiano tira le orecchie all’Europa perchè “la faccia finita con questa litania dei diritti umani”. Un esempio che lascia un sorriso amaro.

Ma a chi giovano, poi, tutti questi atti di contrizione e sensi di colpa sui misfatti veri o presunti di cui saremmo responsabili? Servono a spazzare via anche le nostre conquiste civili ed intellettuali? Ad ogni modo, non c’è scampo: la scorciatoia per smontare il mio discorso si trova facilmente rievocando “antiche alleanze” Occidente – dittatori, interessi occulti, eccetera – come se qualcuno pensasse che quelli non sono stati errori madornali. Detto tutto ciò, non ho la minima difficoltà a dire che l’attuale amministrazione d’oltre oceano è senz’altro una delle peggiori che l’Occidente contemporaneo abbia mai avuto – anche se quelle del vecchio continente non brillano di certo.

Un’ultima considerazione riguardo Aristotele e Newton. Lasciamo da parte gli esotismi dell’epistemologia. Si dà il caso che gli Shuttle vengano mandati in orbita previa calcolo delle leggi di moto secondo Newton, non “secondo Aristotele”. E non c’è nemmeno bisogno di scomodare Einstein. Anche non volendo sostenere una visione convenzionalista o strumentalistica delle teorie scientifiche, già questo – non senza una punta di ironia – dovrebbe dare da pensare a qualunque raffinato epistemologo. Ovviamente, senza nulla togliere al genio scientifico dello stagirita. Attendo smentite – forse sono ancora una volta troppo superficiale... avrò tempo e modo per ricredermi, di fronte a buone ragioni.

Data: 23.06.2013

Autore: Silvio Agosti

Oggetto: Intervento

Il dibattito che è nato attorno al relatismo starà certamente facendo la felicità di Stefano Moriggi che diceva di provare piacere nel sentire fiorire la discussione, anche con posizioni diverse dalla sua. L’ho seguito con interesse e vorrei intervenire su qualche dissonanza, qualche passaggio che non mi convince, anche di carattere non strettamente filosofico.

Forse ha ragione Luca Lunardi che senza l’11 settembre noi occidentali non ci saremmo ritrovati a discutere di relativismo culturale; però non bisogna dimenticare che con questo relativismo qualcuno aveva già dovuto farci i conti. Parlo delle popolazioni africane nel ‘400 sottomesse e schiavizzate. Poi la furia della civiltà superiore si è spostata nelle americhe e poi in oceania. Ancora nell’800 le stragi nei confronti di gente di razza differente erano considerate normali (erano martiri della libertà o no anche gli indiani di Wichita Falls?). Milioni di persone sterminate per il solo motivo di essere inferiori senza che nessuno (se non isolate minoranze) si lamentasse. E’ questo l’Occidente che si riconosce nei valori che lei elenca? Non quando questi valori riguardano gli altri. Una ripassata alla storia recente e agli archivi dei servizi segreti resi pubblici dopo il crollo del muro di Berlino (quindi una minima parte) ci ricorda come la maggior parte dei regimi, anche quelli teocratici mussulmani, sia stata appoggiata dagli stati illuminati.

Non solo colpevoli non sono stati trovati, ma sembra che non se ne vogliono trovare. Nel 1987 all’Onu venne messa in votazione una risoluzione che impegnava tutti gli stati nella lotta contro il terrorismo, tutti gli stati compresi quelli mussulmani votarono a favore, gli Stati Uniti e Israele votarono contro. Gli stessi Usa sono l’unica nazione condannata dal tribunale per i diritti dell’uomo per atti di terrorismo internazionale (la guerra in Nicaragua) che non abbiamo rispettato (annunciando ufficialmente la sua disobbedienza) la sentenza del massimo organismo internazionale.

Un esempio della pericolosa relativizzazione della morale in occidente ce la ricorda Noam Chomsky in più interventi e l’episodio appare inquietante, ci riporta all’epoca della caccia alle streghe (altro bel periodo della nostra nobile cultura). Quando a Oklaoma City venne fatto esplodere un edificio federale in poco tempo si diffuse la certezza che dovesse essere stata opera di terroristi islamici e dopo un paio d’ore erano già partite le richieste di attacchi agli stati mussulmani perché pagassero l’affronto. Solo più tardi l’attentato venne rivendicato da estremisti di destra texani. Nessuno chiese di andare a bombardare il Texas, più intelligentemente si pensò di cercare i colpevoli per assicurarli alla giustizia. Perché non si poteva fare la stessa cosa con gli estremisti mussulmani? Anche perché confondere una cultura con i suoi estremisti è un errore grave. Voglio infatti ricordare che in Europa il maggior numero di vittime da attentati terroristici sono stati causati dall’Ira, che è un gruppo a matrice cattolica. Il grave problema del terrorismo non si risolve con i dogmi su chi ha ragione.

Altra questione: non capisco il rifiuto di mettere sullo stesso piano Aristotele e Newton, entrambi autori di mirabili teorie scientifiche che attualmente si sono dimostrate inesatte alla prova dei fatti (stavolta si parla di relatività e non di relativismo) senza però sminuire il valore del pensiero dei due.

Per quanto riguarda l’intervento di Carelli vorrei solo ricordargli, come ha sottolineato Moriggi, che l’assunto dell’infallibilità del papa rende impossibile ogni relativizzazione di questa religione. Stesso discorso vorrei fare a Guerini, provi a chiederlo a Benedetto XVI “quale Dio?”. Per quanto riguarda il rispetto delle leggi vorrei ricordare che sia i laici che i credenti si sono resi protagonisti di obiezioni di coscienza riguardanti alcune leggi dello Stato quindi non li metterei su piani differenti.

A Tiziano vorrei anche ribattere che mi pare strano che un tipo come Platone che teorizzava, nella Repubblica, la comunanza di beni e donne, potesse trovarsi allineato con un attuale partito di centro. Io lo vedrei più come un nostalgico del ventennio con la sua teoria secondo cui solo i filosofi conoscono la verità e quindi possono governare. Così come Diogene che fu sostenitore di un cosmopolitismo aristocratico mi sembra parta da posizioni piuttosto lontane da quelle dei disobbedienti.

Ripeto: mi sembra. Giudizi assoluti non ne voglio dare.

Data: 23.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: VELUTI SI DEUS (NON) DARETUR…

Correndo il rischio di stancare i lettori del Caffè Filosofico (in tal caso basta astenersi dalla lettura di queste note), voglio ritornare sul senso della domanda che ho rivolto al prof. Meriggi durante l’ultimo incontro, anche perché mi pare di non poter condividere la sua risposta (peraltro data in un contesto affrettato di fine incontro).

Parrà a tutti chiara la corrispondenza fra “relativismo” e “laicità dello stato”, quando si tenga presente che il “relativismo”non necessariamente si accompagna, nella prassi, a deboli idealità.


Questa estate è stato molto frequentato il problema della laicità dello stato, anche sulla spinta del dibattito provocato dal referendum sulla procreazione assistita .

Una delle argomentazioni si è concentrata sulla tematica “veluti si deus non daretur” che è stato un poco lo slogan delle varie campagne sulla laicità dello stato: lo stato deve darsi una propria legislazione senza poggiare le proprie ragioni su elementi di fede religiosa. E’ questo l’assunto della morale kantiana – ma da ultimo soprattutto di Bonhoeffer (l’assenza di Dio che rispetta l’uomo e ne provoca la crescita) che ha fatto scuola nelle elaborazioni dottrinali successive; almeno quelle di stampo seriamente e responsabilmente liberale.

Il Card. Ratzinger – ora Papa Benedetto XVI – in un suo meditato intervento a tal proposito, proponeva di capovolgere l’espressione semplicemente (?) togliendone il “non”: “ come se Dio ci fosse.”

Tale capovolgimento – al di là del significato esattamente opposto che assume – viene presentato come proposta soft, tutto sommato equivalente, sul piano logico, a quella laica.

In realtà le cose stanno in maniera molto diversa; almeno per due ragioni. ( senza dimenticare il rischio che si corre, di affidare a Dio, individuato come alibi, ciò che l’uomo pur dovrebbe e invece non vuol fare).

Mentre per un uomo di fede, adeguarsi alla normativa laica non costa nessun sforzo (beninteso purchè tale normativa rispetti i diritti dell’uomo e della persona e venga definita in modo democratico) – per lui, uomo di fede, si tratterà di aggiungere al rispetto della legge politica (dare a Cesare…) anche il rispetto della legge religiosa (dare a Dio…) -, per l’ateo, invece, comportarsi come se Dio esistesse significa adeguarsi ad un comportamento per lui senza alcun fondamento, dal momento che solo la fede giustifica il rispetto della normativa se poggia su basi religiose. Si potrebbe anche aggiungere, seguendo S.Agostino, che solo la fede dà all’uomo la capacità di comportamenti “religiosi”; per cui chiedere questo a chi la fede non ha, significa sconfessare la potenza stessa della fede.

La seconda ragione, stà nella domanda che immediatamente si pone a seguito del “veluti si Deus daretur”: “quale dio?” Oggi più che mai tale domanda è d’attualità di fronte ad un mondo sempre più globalizzato ed alla mescolanza di razze e di religioni.

Il “veluti si deus non daretur” non esprime quindi un atteggiamento di superiorità o di arroganza del pensiero laico; al contrario è l’unica base fondata e razionale per immaginare una convivenza pacifica, tollerante e pluralista nella laicità dello stato. Ed attuale. Basti pensare a questa (apparentemente)semplice circostanza: nel Medioevo sarebbe stato impensabile immaginare una società senza Dio; oggi, che è il tempo della scienza e della tecnica, è invece del tutto possibile.

Data: 23.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: La fallacia dell’uomo di paglia

Il relativismo volgare ha speranza di sopravvivere solo nelle menti dei furbi ignoranti. Il relativismo sofisticato deve essere così sofisticato da meritare a stento il nome di relativismo. (Roger Scruton)

Prescindendo dall’indiscutibile statura intellettuale e dall’abilità oratoria del giovane filosofo – fatte salve alcune strane cadute di stile, un po’ fuori luogo, che corroborano i sospetti su qualche livore ed ambizione professionale interni al mondo accademico – debbo confessare che la serata mi ha lasciato l’impressione di aver disquisito su un equivoco. Moriggi, continuo a credere, non ha parlato di relativismo per come solitamente lo si intende, finendo infatti per sostenere un’apparentemente paradossale tesi riguardo alla sua inesistenza. Egli ha magistralmente parlato di un’altra cosa. Come vogliamo chiamare la missione della filosofia di cercare pieni di meraviglia la verità piuttosto che possederla, porre come sigillo dell’indagine scientifica la controllabilità intersoggettiva e ripetibile del sapere, nonchè la competizione sul terreno dei fatti e delle ragioni di ogni tesi, da chiunque provenga? La filosofia è intrinsecamente relativista, dato che non esistono autorità assolute, ma solo teorie rivedibili. Magnifico: vorrei sentirlo ripetere ogni giorno, da estimatore di Sir Karl Popper quale sono, ma non lo chiamerei “relativismo”: lo chiamerei semplicemente esercizio della ragione. Niente di più, niente di meno. Definizione forse limitata e circoscritta, ma chiara e fertile; gli ambiti di ricerca filosofica che guardano alle categorie di totalità e infinito sono certamente affascinanti, ma continuo a preferire largamente gli analitici ai continentali. Tuttavia - checché ne dica Moriggi, che ha evitato come la peste qualunque riferimento etico perchè è giustamente fedele alla distinzione fatti / valori - la parola “relativismo” è troppo semanticamente carica e storicamente compromessa da poterla assimilare unicamente all’esercizio del libero pensiero guidato dalla sola ragione fallibile. Essa è intrisa, secondo me, di istanze ed esigenze morali, o almeno è su questi piani che tutti i dibattiti finiscono per accendersi. Io credo che persino teologi ortodossi potrebbero intendere scienza e filosofia nei termini che Moriggi ha delineato, e se si trattasse solo di ciò che egli ha esposto, non ci sarebbe screzio rilevante. A me tutta quella erudita dissertazione è sembrata quasi uno sfondare una porta aperta. Non a caso, alcuni tra gli intervenuti nel dibattito hanno forse dovuto un po’ arrampicarsi sui vetri - pur conservando una certa pertinenza - avvicinandosi pericolosamente agli attacchi ad personam, avendo pochi reali argomenti da opporre a chi sapientemente si era messo al riparo da superficiali osservazioni (questo non vuol dire che non fossi d’accordo con loro, compresi certi dettagli polemici che ho trovato anche divertenti).

Mi è parso dunque che uno strawman aleggiasse infido intorno al discorso Moriggiano, anche se nel suo caso non si è trattato di combattere una tesi (il relativismo) dàndone però una versione caricaturale inesistente, ma piuttosto tentare di sostenerla scambiandola tuttavia con qualcos’altro che relativismo forse non è. Non vorrei comunque sembrare troppo presuntuoso nell’accusare un epistemologo di errori logici. Probabilmente sono io ad aver frainteso; ma forse no, se si vogliono accettare almeno in parte le accezioni di relativismo che, istintivamente, mi provocano sensi di fastidio: quelle che discutono la dimensione etica del vivere, piuttosto che quella meramente gnoseologica. Bene fa Piero Carelli a scrivere che dell’apparenza non contraddittoria delle lampade non ci importa nulla: c’è ben altro che un ozioso crampo logico-linguistico nelle faccende filosofiche, con buona pace di Wittgenstein, il quale infatti rimase un uomo profondamente inquieto e tormentato per tutta la vita alla ricerca di un approdo. Su questo terreno vorrei però mettere le mani avanti, per evitare fraintendimenti grossolani. Non ho la minima intenzione di spostare il nucleo del problema verso posizioni appiattite sul recupero delle radici o peggio “difesa delle tradizioni”, e neanche prendere partito per Joseph Ratzinger. E ancor meno fare il pistolotto: i moralisti sono sempre personaggi insopportabili. Piuttosto, vorrei partire da un banale dato di fatto per evidenziare quelli che, a mio modo di vedere, sono i veri motivi del contendere.

Il dato di fatto è presto detto. Nonostante sia troppo giovane e poco qualificato per recuperare la storia dei dibattiti europei sul relativismo, che probabilmente gli addetti ai lavori non hanno mai abbandonato, mi pare difficilmente negabile che se in data 11 Settembre 2001 non fosse successo quello che è successo, con tutta probabilità non ci troveremmo ora a discutere di relativismo, specie culturale. E’ stato quello spartiacque storico – che un giorno vedremo solo come convenzionale, dal momento che l’ideologia che lo ha prodotto gli è di molto antecedente ed aveva già dato prova di sé – a farci prendere coscienza dell’esistenza di mondi apparentemente incompatibili o conflittuali col nostro, gettando le basi per il dibattito odierno. E va da sé che, strettamente parlando, logica ed epistemologia non c’entrano. La visione vagamente surreale di donne esiliate dal mondo fisico alle quali veniva (viene) negato il diritto di ridere ed emettere rumori camminando non è qualcosa che tocca direttamente le teorie della razionalità, ma questioni che sconfinano decisamente in un altro territorio: quello della dignità della persona e dell’intangibilità della vita umana. Per i relativisti veri – non quelli à la Moriggi, tra i quali mi metterei anch’io – si potrebbe giustificare chi lapida una donna per adulterio ricorrendo al legame che lo vincola ad una società che lo ritiene un atto di giustizia, nei confronti della quale non dovremmo avere nulla da dire, appartenendo a coordinate culturali incommensurabili. Moriggi ha in effetti sfiorato quello che io chiamerei correttamente relativismo citando Feyerabend, che del concetto di incommensurabilità (fra teorie scientifiche) ha fatto un cavallo di battaglia, come anche Kuhn: non a caso, questi due autori sono stati accusati proprio di essere dei relativisti. Feyerabend, con l’altro della triade antipopperiana Lakatos, chiamava il vecchio dinosauro dalle enormi orecchie “il Gran Sultano Al Poppuni”, presunto despota della Verità che tenta di approssimare senza mai raggiungere, usando il limitato metodo del trial and error. Le critiche dei due ex allievi dissidenti sono ottime, ma quando Feyerabend cerca di farci credere che accanto a Galileo e Newton occorra proporre anche Tolomeo ed Aristotele perchè le loro teorie sarebbero non meno coerenti, esplicative e degne di essere scelte nei curriculum di studi, non posso che chiudere Against Method e passare ad altro, perchè ci dev’essere qualcosa che non funziona. Si potrebbe ricorrere ad infiniti esempi e fare molti nomi e cognomi tra coloro i quali sostengono idee di questo tipo anche in ambito non scientifico, ma vorrei evitare toni troppo appassionati che pure, dato il tema, userei.

Io credo che un insieme di princìpi fermi, irrevocabili, non negoziabili ed interculturali sia estremamente ristretto, ma esista. Elencarli suonerebbe quasi pleonastico, se non fosse che spesso dimentichiamo, appartenendo forse al pezzo di mondo che meglio di ogni altro cerca di applicare quei princìpi, che essi non sono affatto condivisi da tutti, o comunque vengono fortemente stemperati. Mi pare che possano appartenere a questo insieme le seguenti norme (altre ne aggiungerei, ma cerco appunto di evitare ciò che qualcuno potrebbe interpretare come imperativi troppo legati alla cultura occidentale):

Sacralità della vita umana (intesa proprio come valore non relativizzabile)

Rifiuto della violenza come ordinario metodo di amministrazione delle cose umane

Rispetto dell’integrità corporea e psichica della persona, ivi comprese le forme di umiliazione e sottomissione praticate attraverso l’imposizione di abbigliamenti o comportamenti

Già mi sembra di udire l’obiezione del relativista. Anche l’Occidente non rispetta questi “comandamenti”. Il punto è che gli ordinamenti democratici ed il comune sentire nel mondo occidentale rigettano e puniscono chi si rende responsabile della loro violazione (non sempre perfettamente: ma questa fallibilità non cambia il giudizio complessivo). Vogliamo ritenere che ciò sia un dettaglio inessenziale?

Proviamo a pensare per un attimo di relativizzare le massime sovrastanti. Il mondo diverrebbe un arcipelago di isole non comunicanti in perenne guerra tra loro, dove l’uomo non avrebbe più nemmeno gli strumenti per avvicinare il proprio simile.

Ebbene, si dà il caso che l’Occidente più superficiale ed incosciente non si rende conto che oggi esiste, ad esempio, un’ideologia demoniaca del tutto paragonabile ai totalitarismi novecenteschi che disconosce tutte e tre le norme di cui sopra. Non ho bisogno di ricordare qual è; non è la prima volta che ne scrivo, ed ancora ne scriverò, ogni volta che il tema me lo permetterà. E’ la stessa fetta di Occidente che arriva a far ricadere su se stesso la responsabilità ultima di quella barbarie, perchè sta perdendo i parametri intellettuali per riconoscerla per quella che è. Non ho il timore di incorrere nella stessa fallacia che ho menzionato sopra attaccando il pensiero relativista vivo in Europa. Infatti, non c’è bisogno di fabbricarsi opinioni estreme ad hoc da criticare, perchè vengono fornite persino attraverso i mass media da intellettuali di grido: Gianni Vattimo ritiene che Abu Musab al-Zarqawi sia un’espressione culturale rivoluzionaria che intende a modo proprio la lotta per la “libertà”. Fanno le loro “schifezze”, Vattimo dice, ma tutti i rivoluzionari all’inizio le fanno, poi rientrano nei ranghi. Sono sicuro che per la stragrande maggioranza delle persone eticamente dotate questa presa di posizione rappresenta un’aberrazione disgustosa. E, per carità, non si scada nei giochetti volgarmente relativisti cominciando a chiedere “ma di quale etica stai parlando...?”, od obiezioni similari. Moriggi ha parlato di opzioni etiche: mi pare che la vita e la salute non siano opzionabili; nondimeno, il suicidio–omicidio come glorioso atto di martirio è considerato etico per troppe persone (pretendere che ciò non sia vero o che sia eccessivo è solo un ulteriore atto di incoscienza, se non di colpevole ignoranza). Relativizzare il giudizio morale su queste macchine di indottrinamento ideologico significa solo gettare la spugna, rifiutare di prendere atto di un problema drammatico che investe anche chi fa finta di non vederlo.

Data: 23.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: RELATIVISMO E TEORETICITA’. Quali radici per il relativismo?

Mi è difficile immaginare una posizione filosofica diversa da quella espressa dal relatore dell’ultimo incontro del Caffè Filosofico prof. S. Moriggi, che sia allo stesso tempo tanto vicina e tanto lontana dal (mio) pensiero: tanto vicina per le considerazioni svolte in riferimento alla realtà (nella prassi definita empirica) considerata come “unica”; e tanto lontana quanto ai fondamenti che devono necessariamente sostenere tale convinzione perché si possa definire filosofica (anzi, a dire la verità, il fondamento non è stato per nulla espresso, presentando il relativismo come un fatto che per ciò stesso deve essere assunto come vero). Messa così la questione (ma forse il relatore ha considerato l’argomentazione sul fondamento implicita e non l’ha esplicitata per ristrettezza di tempo), risultano di conseguenza, invece, molto fondate le obiezioni circa la validità della posizione relativista – o quella della laicità dello stato che coerentemente ne deriva – rispetto ad altre posizioni culturali o sociali o politiche che magari si presentano come “fatti” di maggior forza (per la maggioranza dei consensi, per la maggior violenza che riesce a mettere in campo; qualcuno ha giustamente detto anche per maggiori risorse economiche o di comunicazione disponibili…). Certo la questione del fondamento non è semplice, perché rimanda alla dimensione filosofica “teoretica” che stranamente si ritiene superata: dico stranamente perché al contrario solo un approfondimento circa la metafisica greco-romano-cristiana può portare alla comprensione profonda del perché, oggi, sia il relativismo la filosofia dominante; di più, sia il relativismo proprio il compimento coerente delle premesse dualistiche poste dalla metafisica classica: bisogna infatti riconoscere che, se si parla di relativismo, è proprio perché si è molto parlato di assoluto. Certo il “fondamento teoretico” non è neutrale circa la definizione del mondo empirico; non lo lascia vivere nella sua solitudine; pretende di definirne l’essenza, come si diceva una volta: e tale essenza – se si vuole che la realtà si mostri nel suo fondamento – sta nella necessaria unicità dell’essere, nel conseguente superamento del dualismo e del divenire ( e del concetto di potenzialità), per lasciare spazio al disvelamento della dimensione conoscitiva dell’uomo legata, per ciò che empiricamente gli appare, “al contingente ed al particolare”, ma razionalmente portatrice della visione della concreta eterna totalità.

Data: 23.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: L’OFFENSIVA DI RATZINGER NON PUÒ ESSERE VISTA COME UNA PROVOCAZIONE ALTAMENTE POSITIVA?

Giochi di parole che non interessano a nessuno

Tutto è relativo? Supponiamo che sia così. Si può confutare questa ipotesi? Proviamo. Per farlo, dovremmo trovare almeno una proposizione assolutamente certa, un’affermazione cioè la cui negazione implica contraddizione. È possibile, ad esempio, negare che la lampada che ho di fronte a me appaia? Ovviamente no. Se lo facessi, infatti, mi contraddirei: direi che “questa” lampada (che appare: come potrei, altrimenti, affermare “questa” lampada), non appare.
A questo punto il relativista potrebbe obiettare: ma tu, in questo modo presupponi come certo il principio di non contraddizione quando, invece, questo è solo una convenzione. Si può rispondere all’obiezione? Proviamo a negare il principio di non contraddizione: che succede? Succede che chi lo nega si contraddice: se, infatti, “negassi” tale principio, non lo “affermerei” e, quindi, utilizzerei di fatto il principio e, di conseguenza lo… affermerei.
Abbiamo, allora, in mano delle “certezze” in barba al relativismo? Ma… che certezze sono? Ha importanza sapere che la lampada che ho di fronte appare e che tale lampada non può essere contemporaneamente accesa e spenta? Grazie, sommi filosofi, ma non me ne importa per nulla.
Possiamo confutare il relativismo sostenendo che chi lo afferma lo considera “vero” e, dunque, afferma come “vero” ciò che per definizione “non è vero”? Anche qui applicheremmo il principio di non contraddizione. Ma che cosa avremmo in pugno? Nulla.
Le piste che abbiamo provato a seguire, quindi, non ci portano lontano: anzi ci ingabbiano in… giochi di parole.

Quale grande problema ha avuto una soluzione indiscutibile?

L’anti-relativismo, per essere significativo, deve esibire ben altre certezze. Vi è qualche problema di quelli che davvero contano (pensiamo ai grandi interrogativi di senso) che ha avuto una soluzione assolutamente certa, innegabile? Lo si tiri fuori. L’enigma-Dio? È patetico – l’abbiamo visto al Caffè filosofico – il tentativo di risolverlo more geometrico. Problemi etici? Ma… con quale ragione li risolviamo? Ha ragione il prof. Stefano Meriggi: non ci si può staccare dalle radici, portarsi fuori. Il relativismo è, allora un “fatto”? Pare proprio di sì: le visioni del mondo, i valori non sono il risultato di categorie culturali che, a loro volta, sono legate alle “radici”?
E questo non vale solo per il presente: la storia non è una chiara dimostrazione del relativismo. È vero, sì, che nel corso della storia, vi è stato chi ha avuto la convinzione (presunzione?) di esprimere… il punto di vista di Dio, della Verità assoluta, ma è anche vero che c’è sempre stato qualche “maestro del sospetto” che ha osato individuare le “radici” di tali Verità. Tutto, allora, è storia (come diceva, tra l’altro, un certo Marx), tutto è figlio del proprio tempo? Anche le religioni? Anche le “regole logiche” (compreso il principio di non contraddizione)? Sembrerebbe di sì.

Il relativismo è davvero inaccettabile per un cristiano?

Ora, tale relativismo sarebbe inaccettabile per un cristiano? Perché mai? L’uomo è... storico. Le religioni sono... storiche. Ma... la rivelazione (si potrebbe obiettare)? Moriggi sostiene che anche la rivelazione è “interpretazione” (quindi, relativa). Mi pare esprima una tesi condivisibile. Non è la stessa storia del Cristianesimo la storia delle “interpretazioni” del Cristianesimo? Non è, dunque, la storia della religione cristiana (anche della stessa confessione “cattolica”) la... rivelazione del relativismo?
La Chiesa fa parte del tempo ed è sulla base di categorie “storiche” che “legge” il messaggio cristiano. Che cosa c’è nel Cristianesimo di “assoluto”? Nulla. Alla base di esso c’è solo la “fede”, fede che non è altro che un... salto nel buio, cioè l’antitesi della certezza (anche se può avere come contenuto una certezza). L’“Assolutamente Altro” , in quanto tale, come potrebbe essere accessibile all’uomo? La religione cristiana è strutturalmente… relativista.

Una crociata – quella di Ratzinger – per affermare “verità assolute” (religiose o metafisiche), oppure una nobile offensiva in nome della difesa dei valori migliori del patrimonio occidentale?

Il prof. Ratzinger sta facendo una crociata per vendere la fede come una “verità assoluta” o per diffondere delle verità in ambito metafisico? Non risulta per nulla. Allora, qual è il terreno dello scontro tra Moriggi e il professore diventato papa? O non c’è o, a questo livello, non si vede.
L’ambito entro cui si muovono Ratzinger e Pera (in Senza radici) apparentemente è molto più stretto: quello che intendono denunciare è il fatto che “l’Occidente non si ama”. Perché l’Occidente non si amerebbe? Perché sta svendendo il suo ricco patrimonio di valori in nome del relativismo, dell’uguaglianza di tutti i valori.
È indice di intolleranza sostenere una tesi del genere? No. Già i sofisti greci dal relativismo non deducevano per nulla che tutti i valori sono uguali. Lo ripete Moriggi: il relativismo non significa tutto e il contrario di tutto; si può, quindi, essere relativisti e, nello stesso tempo, considerare delle opzioni “preferibili” ad altre.
Ora il liberalismo (con annessa la concezione della “laicità dello Stato”) e la democrazia sono o no delle “opzioni preferibili” al fondamentalismo islamico e ad ogni forma di totalitarismo? Lo sono per Ratzinger come lo sono per Moriggi. Il match, di conseguenza, sotto questo profilo, non c’è.

Lo scontro non è sul terreno dell’“interpretazione” di valori condivisi (od “opzioni preferite”), in particolare sulla “laicità dello Stato” e sulla “libertà”?

Dove sta, allora, lo scontro? Non sta, forse, nella diversa “interpretazione” di questi opzioni (valori)? È un caso che Moriggi abbia fatto ruotare gran parte del suo discorso (lo ha ben sottolineato Tiziano Guerini) intorno alla “laicità dello Stato” e al concetto di “libertà”?
È qui, non nei... massimi sistemi, che esplode lo scontro sul relativismo: sul terreno cioè delle “opzioni politiche”.
È in nome della laicità dello Stato che è da escludere una religione di Stato. È in nome della stessa laicità che va esclusa un’“etica di Stato”? Parrebbe di sì, tanto più dopo lo... Stato etico del famigerato regime fascista. Allora, una legge dello Stato deve essere “eticamente neutra” in modo da salvaguardare la “libertà” dei singoli cittadini di scegliere sulla base della sua “etica”, anche su problematiche “bio-etiche”? È questa la tesi di Moriggi.

La scienza non offre alcune “certezze” (anche se passibili di integrazione)?

Veniamo al concreto. Come dovrebbe comportarsi un parlamentare che avesse la motivata convinzione – non sulla base della religione, ma su dati scientifici – che l’aborto (ricorro allo stesso esempio di Moriggi) sia un omicidio? Si obietterà che i “dati” scientifici non esistono perché la scienza è una serie di “congetture”. Ma è proprio così? È proprio vero che la scienza è una mera “costruzione” mentale? Le congetture ci sono, ma – a quanto mi pare di capire – sono relative ai... massimi sistemi. Sui problemi decisamente meno... abissali non esistono alcune “certezze” (certezze che, sicuramente, potranno essere integrate nel futuro)? È vero o no che l’embrione (quando i due nuclei si sono fusi) ha già l’intero patrimonio genetico del nascituro? È vero o no che l’embrione, almeno dal quattordicesimo giorno (da quando non può più scindersi), è già un “individuo”? È vero o no che, dopo circa due settimane, nell’embrione inizia a svilupparsi il primo abbozzo di sistema nervoso che consentirà all’embrione stesso di sentire (anche il dolore)? È vero o no che dopo qualche mese si sviluppa la corteccia cerebrale che è il supporto biologico della coscienza e di tutte le facoltà “mentali” dell’uomo?
Siamo di fronte a dei “dati” scientifici o a delle “interpretazioni” di tali dati? È vero che “individuo” è un concetto filosofico, ma è anche vero che tale concetto, associato al “dato” che noi conosciamo sull’embrione di due settimane, ci porta ad affermare che detto embrione è un “individuo”. È vero che il concetto di “persona” è un concetto filosofico, ma è anche vero che – posto che per “persona” si intenda “individuo di natura razionale” – si può sostenere correttamente che l’embrione, una volta che si è formata la corteccia cerebrale, ha tutti i presupposti “biologici” della “persona”. O… no?

Come dovrebbe comportarsi un parlamentare di fronte a un disegno di legge che dovesse prevedere ciò che egli ritiene in coscienza la legalizzazione dell’omicidio?

Come dovrà, allora, comportarsi un parlamentare (credente o no) che si fosse documentato sulle informazioni che ci offre oggi la biologia e si fosse fatta la convinzione – associando concetti filosofici a dati scientifici – che interrompere la gravidanza è commettere un omicidio? Dovrebbe consentire – in nome di una presunta neutralità etica della legge – quella che per lui (per la sua coscienza) è una vera e propria legalizzazione dell’omicidio o, dovrebbe, al contrario battersi perché questo non avvenga?
È questo – lo ripeto – il terreno concreto dello scontro tra relativisti e anti-relativisti, non quello dei discorsi nobili o banali (a seconda del punto di vista) sul relativismo filosofico e neppure quello – chiarissimo nel libro citato di Ratzinger-Pera – tra coloro che amano l’Occidente e, di conseguenza difendono la superiorità dei valori occidentali contro i disvalori di altre civiltà e coloro (ma… ci sono davvero?) che mettono sullo stesso piano tutti i valori.

“Laicità dello Stato” significa “neutralità etica della legge” oppure “mediazione (alta) di valori in competizione”?

È davvero possibile che un parlamentare – su tematiche che coinvolgono profondamente i “valori” che appartengono al nostro vissuto (alle nostre “radici”) – si liberi da questi valori, in cui crede fermamente, in nome della “laicità dello Stato”? Le leggi non sono portatrici di “valori”, come portatrice di “valori” è la nostra Costituzione? E, allora, come “interpretare” la “laicità dello Stato”? Come “neutralità etica della legge” (in nome della libertà di ogni singolo cittadino in tema – ad esempio – di fecondazione eterologa e dei matrimoni tra gay) o come “compromesso” tra valori in competizione?
Secondo Marcello Pera occorre andare oltre la democrazia del semplice conteggio dei voti per arrivare ad una democrazia del “senso”. Ma da dove può scaturire (escluse “rivelazioni” divine o umane) questo “senso” - che ha come oggetto il “bene” e non semplicemente “l’utile” – se non da una “maggioranza”? E come si può formare una “maggioranza” intorno ad un disegno di legge se non mediante una “mediazione” – la più possibile alta - sui “valori” (“opzioni preferite”) in competizione? La politica è non è l’arte della “mediazione”, del compromesso proprio perché è “l’arte del possibile”?

Non può assumere un significato altamente positivo l’offensiva di Ratzinger contro la “dittatura del relativismo”?

Ha una sua accettabilità il ragionamento che ho condotto fin qui? Se sì, non potrebbe avere un senso altamente positivo l’offensiva contro la “dittatura del relativismo”, se la intendiamo come ricerca del punto più elevato di mediazione tra i valori (ripeto “opzioni preferite”) che fanno parte del nostro patrimonio occidentale (in primis l’imperativo kantiano che ci obbliga a considerare l’uomo – ogni uomo – sempre come un “fine” e mai come un “mezzo”)?

Crema, 14/09/05

Piero Carelli



Un’idea

PS. Perché non prevedere in uno dei prossimi incontri sul relativismo un confronto sul concetto di “natura umana”? In che misura – in base ai dati della scienza – la natura è… natura e in che misura è una nostra “costruzione” mentale e, di conseguenza qualcosa di “artificiale”? Potrebbe indubbiamente illuminarci un po’ anche sulle problematiche – sempre più attuali e scottanti (al di là dell’esito del recente referendum) – di carattere bioetico! Si potrebbe prendere lo spunto dalla monografia che ha dedicato al tema, nell’ultimo numero, la rivista Micromega (disponibile nella biblioteca comunale).

Data: 23.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: L’indifferenza

L’indifferenza come fondamentale categoria etica. Essere indifferenti, secondo Stefano Moriggi, significa ammettere opzioni etiche, esistenziali, diverse da parte di persone diverse: l’indifferenza rispetto a ciò che rientra nella sfera del diritto di scelta dell’individuo. Una filosofia relativista come la sua non riconosce valori? Non mi pare affatto. I valori sono lì, con la preziosa scorta del pensiero occidentale, con la sfrontatezza della critica illuministica e laica nei confronti di un potere che si presenta come indiscutibile solo perché può contare sulla forza di un consenso artefatto, che altro non è, nella migliore delle ipotesi, se non assuefazione, rinuncia, distrazione o rassegnazione.

La ricchezza delle citazioni con cui Moriggi ha argomentato le proprie tesi non può passare inosservata. Da Tocqueville a Feyerabend è un piacere ascoltare uno studioso che, pur occupandosi di una disciplina così complessa e a volte ostica per i non addetti ai lavori come l’epistemologia, sa rivolgersi a un pubblico composito riuscendo a farsi capire, catturando l’attenzione e – perché no? – suscitando indignazione. Il suo discorso mi ha ricordato alcune posizioni di Bobbio, in particolare l’ormai antico (1955) dibattito Politica e cultura, dove la libertà individuale è definita un valore universale irrinunciabile, e l’idea di tolleranza è fondata sul principio filosofico dell’incapacità per l’uomo di attingere una verità definitiva e assoluta. A questa idea Bobbio attribuisce il merito di aver dato vita allo stato di diritto, e dunque chi pretende che la verità assoluta sia attingibile (con conseguente legittimazione della repressione violenta dell’errore) attenta a quello stesso stato di diritto. “Sarebbe davvero un gran progresso – ironizza Bobbio – dopo aver combattuto la pretesa delle chiese di essere in possesso dell’unica verità, finire per ammettere che della verità assoluta è in possesso un ente pubblico collettivo senza rivelazioni sovrannaturali e senza interventi divini, come lo stato (o il partito)”. Allora era chiaro di quale stato o partito si parlasse. E oggi? Personalmente sono rimasta spiazzata quando al relatore è stato rivolta la critica di essere comunista. Ma allora non ho capito niente: a me era sembrato liberale, nel significato più alto del termine, in un significato tocquevilliano, per l’appunto. Mi pareva che difendesse il diritto della coscienza individuale, la libertà di scelta contro l’iper-regolamentazione. Di più: la possibilità di tradurre in azione l’astratta libertà di pensiero.


Insomma: l’indifferenza di Moriggi è tutt’altro che indifferente, non solo per la passione etico-politica che il relatore non si preoccupa affatto (per fortuna!) di nascondere, ma perché la definizione di filosofia da cui procede e a cui costantemente si richiama è quella, in ultima analisi, della tradizione greca. La filosofia di Aristotele figlia del dubbio e della meraviglia. La filosofia come un interrogarsi che non ammette risposte assolute, ma che forse esprime un tratto perenne, essenziale, dell’uomo: il bisogno di interrogarsi. Non parlerò di natura umana, per timore di venire istantaneamente ascritta ai sostenitori dell’antirelativismo, ma non è forse vero che le domande della filosofia da Socrate a noi non sono molto cambiate? Non ci credete? Provate a parlare con ragazzi e ragazze di sedici - diciott’anni.

Forse sono un tipo che si accontenta facilmente, ma a me basta questo come fondamento.

Nuovo commento