LA RELIGIOSITÀ DELLA TERRA. UNA FEDE CIVILE PER LA CURA DEL MONDO - RELATORE: DUCCIO DEMETRIO

10.03.2014 21:00

La religiosità della terra non è una devozione neopagana e nemmeno un culto.

È un modo di sentire umano tra i più immediati e istintivi. È meraviglia, commozione, sgomento, dinanzi alla natura e al suo manifestarsi in forme

molteplici e discordanti: bellezza sublime, supremazia, indifferenza.

Sia il credente sia il non credente, dinanzi alla natura, non possono che provare identiche emozioni. Per questo oggi è necessaria una comune fede civile, un'alleanza feconda nella custodia del mondo, tra tutti coloro che intendono opporsi alle aggressioni, alle negligenze, ai saccheggi indiscriminati contro la nostra terra che, da madre, si rivela sempre più figlia.


Duccio Demetrio ha insegnato Filosofia dell'educazione all'Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ha fondato e dirige la Libera università  dell'autobiografia e la Scuola di ecologia narrativa di Anghiari e l'Accademia del silenzio. Ha pubblicato, tra gli altri, Filosofia del camminare (2005), La vita schiva (2007) e Perché amiamo scrivere (2011).

Dibattito

Data: 22.03.2014

Autore: Gabriele Ornaghi

Oggetto: TRATTO DALLA TERRA PER ESSERE IL SUO CUSTODE

“Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse”. È con questa semplice frase che la Bibbia, dopo aver descritto la nascita del mondo per opera del suo Creatore, pone in luce quale sia il compito, il fine ultimo dell’uomo sulla terra: essere il custode dell’intero creato. Un compito molto semplice, perché, nell’ottica del redattore del libro sacro, tutto ciò che è stato creato (umanità compresa) è cosa buona. Tuttavia l’umanità è venuta meno alla sua missione. Perché? Forse per pigrizia? O per un senso di superiorità da parte dell’uomo?

Gli alibi dell’uomo

Come prima risposta qualcuno potrebbe suggerire che il compito del primo uomo era quello di custodire non l’intero creato ma solamente il giardino dell’Eden, quel mitologico paradiso terreste ove l’uomo non doveva faticare per procurarsi la propria sussistenza ne tanto meno soffrire a causa del Male che in esso non era presente. Conosciuto il male e subita la condanna con la relativa cacciata dall’Eden, l’uomo è stato posto nel Mondo, fuori dal giardino, in un luogo a lui ostile e di fatica. Tuttavia questa risposta sembra fin dall’inizio una scappatoia. O addirittura una scusa per modificare e deturpare il mondo a proprio piacimento e a proprio vantaggio.
Qualcun altro allora potrebbe suggerire che, se si analizza il racconto della creazione, si può cogliere che l’uomo è al vertice di tutto il creato, la creatura perfetta fatta ad immagine e somiglianza del suo Creatore. Questa sua perfezione, questo suo essere “onnipotente”, gli fornisce l’alibi perfetto per non occuparsi della terra, ma tuttavia gli consente di modificarla a proprio vantaggio. Questa ipotesi, per quanto appaia chiaramente una scappatoia per non assolvere il compito affidato all’uomo, ci fa comprendere come facendosi forte del suo essere “diverso” rispetto alle altre creature e al contempo superiore perché simile a Dio, gli abbia permesso di fare della terra ciò che meglio credeva. Se si scorrono le pagine della Bibbia ed in particolare i libri del Levito e del Deuteronomio, ci si potrà facilmente accorgere che la legge mosaica analizza fin nel dettaglio il rapporto dell’uomo con la terra, ed in particolare con la terra da coltivare (anche in un’ottica di “proprietà privata”). Le varie norme che regolano la semina e il raccolto sono fissate non solo in un’ottica di sussistenza, ma anche di ringraziamento per i doni ricevuti. Certamente il tutto è tenuto insieme (e per certi aspetti garantito) da un personale e comunitario rapporto con Dio. L’ateo o l’agnostico potrebbero sentirsi chiamati fuori da questo rapporto giuridico con la terra, eppure la legge mosaica comprende anche i rapporti con i cosiddetti “gentili”, ovvero coloro che non appartenevano al Popolo Eletto, e che tuttavia aveva diritto di godere dei frutti della terra. In quest’ottica di un paradiso terrestre riconquistato, o ricreato alla meglio da parte dell’uomo, difficilmente si comprende come l’uomo abbia potuto dimenticare le sue radici con la terra e si sia permesso di deturpare il proprio habitat.

Il superuomo divinizzato

Se penso all’uomo moderno, all’uomo che inizia a lavorare nelle fabbriche, a creare i primi prodotti che poi nella loro evoluzione sfoceranno secoli dopo nei prodotti di massa, mi immagino un superuomo. Un uomo che acquisisce un nuovo ruolo, una nuova visione di se stesso e delle proprie possibilità e capacità, e quindi organizza il proprio essere e il proprio vivere come se fosse lui ora il creatore del mondo. Certamente questo nuovo status, non è vissuto dal semplice operaio, che viene visto ed usato dall’industriale solamente come un “mezzo/strumento” per raggiungere il fine desiderato, ma da colui che fonda l’industria, la dirige e ne ha il maggior profitto. È questo prototipo di superuomo che inizia sistematicamente a cambiare il volto del mondo e della natura che lo circonda. Già nei secoli precedenti l’epoca moderna, l’uomo aveva cambiato il paesaggio per poter sopravvivere pur senza intaccare il genuino rapporto con essa. La sfida che gli si presenta ora è quella di sfruttare al massimo il mondo che lo circonda e le sue risorse per poter produrre sempre più su larga scala. Dietro al superuomo-industriale esiste però una categoria di superuomo che potremmo definire divinizzata: gli scienziati. Lo scienziato moderno (e soprattutto post-moderno) non si accontenta più di cercare di capire il mondo che lo circonda catalogando le specie animali e piante, cercando di afferrare i meccanismi della vita. Ora lo scienziato post moderno cerca di creare (ove possibile) egli stesso la vita. Non è solamente un’idea romantica da romanzo horror, ma una realtà che soprattutto alla fine del XX secolo ha iniziato a compiersi. Non solamente questioni legate alla nascita in vitro o alla clonazione di esseri viventi, lo scienziato moderno gioca, nel suo essere superuomo divinizzato, ad essere Dio controllando la vita umana, animale, vegetale e gli agenti climatici. La scienza che sta vivendo in un’interrotta epoca d’oro, giorno dopo giorno conquista un posto sempre più ampio all’interno dell’olimpo degli dei, a volte senza che i rischi vengano debitamente calcolati. Sconvolgimenti naturali ed epidemie sono sempre esistite nel nostro mondo, ma mai, come oggi forse sono causate direttamente o indirettamente dalla mano dell’uomo. Esempio fra tutti il surriscaldamento globale che ha portato col tempo ad un feroce cambiamento climatico non solo nel nostro Paese ma in tutti i continenti. La mia non vuole essere la solita predica moralista e bacchettona (forse anche un po’ bigotta). Il mio intento vuole essere, anche alla luce di una rinnovata (o forse nuova) religiosità della terra, quello di porre alla luce, sotto una chiave filosofica, la questione della terra e del rapporto con essa soprattutto ora che l’uomo non sa più cosa vuol dire.

Vivere da terrestri

Il filosofo Duccio Demetrio nella sua opera e nell’ultimo intervento al Caffè Filosofico di Crema, ci ha mostrato come tutti (noi giovanissimi compresi) abbiamo un primo ricordo del nostro rapporto con la terra, un ricordo che diventa (a mio avviso) il ricordo base per rapportarsi con essa. Il cantautore Franco Battiato in una sua famosa canzone cantava la necessità fisiologica di dormire per terra per non perdere il proprio contatto, il proprio rapporto con essa. Battiato esprimeva questo suo rapporto con la terra legandolo ad altre vite vissute (da lui o dai suoi antenati) in un rapporto diretto e semplice con la madre terra, con quella terra dalla quale siamo stati tratti. Duccio Demetrio dal canto suo ci ricorda che l’uomo, non secoli fa ma solamente qualche decennio fa, sapeva stupirsi d’innanzi al semplice canto degli uccelli, o al volo delle rondini che segnavano il cambio di stagione. Ciò che l’uomo ha perso nella sua folle corsa a divenire un superuomo divinizzato è per l’appunto questo stupore davanti al creato, questo rapporto con la terra che lo rendeva umile davanti a ciò che è più grande di lui. L’umano del terzo millennio, forte delle sue scoperte scientifiche e tecnologiche, si sente superiore a tutta la natura che lo circonda definendo i suoi simili che ancora vivono un genuino rapporto con la terra, primitivi. Non sono un folle e non intendo dire che dovremmo realmente tornare all’età della pietra, senza tecnologia e senza la scienza. Ciò che voglio suggerire è un ritorno ad una visione antropologica dell’umano reale, ovvero vedere l’essere per quello che è, una creatura piccola rispetto a tutto il creato (universo compreso) dotata di un grande potenziale; e non un superuomo divinizzato. La scienza stessa ed in particolar modo l’astrofisica ci suggerisce che noi siamo solo un puntino nell’universo, che il nostro mondo è uno solo dei tanti nel cosmo. Noi siamo un granello di polvere che è stato tratto dalla terra (ădām) e alla terra dobbiamo tornare come ci ricorda la Bibbia. Questa realtà è valida tanto per i credenti quanto per i non credenti. La responsabilità della custodia del giardino affidato ai nostri progenitori Adamo ed Eva è eredità comune di tutta l’umanità. Come fare a curare questo nostro mondo malato? Ascoltandolo, meravigliandosi di tutto il creato, come ci suggerisce Duccio Demetrio. Noi siamo i custodi della terra perché da essa siamo stati tratti e ad essa torneremo. E soprattutto perché è il luogo nel quale viviamo. Giovani e meno giovani siamo ora chiamati tutti ad assolvere un solo compito: vivere da terrestri.

Data: 23.03.2014

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Oppure...

…oppure, come narra una favola antica, la Cura, “mentre stava attraversando un fiume, scorse del fango cretoso; pensierosa, ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma”…
Inizia così la “testimonianza preontologica” che Martin Heidegger crede di scorgere nel mito raccontato da Igino (Caio Giulio Igino, liberto di Ottaviano Augusto, o forse Igino Astronomo, di un secolo più tardo), n. 220 di una raccolta che ne comprende 277.
Dunque la Cura chiese a Giove di dare la vita alla sua creatura di fango, e fu accontentata. La Cura, Giove e la Terra, che aveva fornito l'argilla, discussero sul nome da dare alla creatura e scelsero ad arbitro Saturno, il quale così decretò: “Tu, Giove, che hai dato lo spirito, al momento della morte riceverai lo spirito; tu, Terra, che hai dato il corpo, riceverai il corpo. Ma poiché fu la Cura che per prima diede forma a questo essere, fin che esso vive lo possieda la Cura. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo poiché è fatto di humus”.
Heidegger, come si sa, è interessato alla Cura, senza ovviamente trascurare Saturno, il greco Crono, figlio di Urano e Terra, insieme con altri undici Titani, tre Ciclopi e tre Centimani. L’Essere è Crono stesso.
Demetrio apprezza la religiosità della Terra, che secondo la Teogonia di Esiodo invita i figli a disfarsi del padre Urano. Il padre, infatti, ha il brutto vizio di divorare i figli, e solo Crono, l’ultimo dei Titani, ha il coraggio di brandire la falce appositamente costruita dalla premurosa madre per evirarlo. Lo stesso Crono, poi, emulerà il padre ingoiando i figli avuti da Rea, finché un tenero rampollo di nome Zeus non lo costringerà a vomitarli uno dopo l’altro, compresa la pietra che il papà aveva scambiato per il feto del proprio ultimogenito.
La storia prosegue intricata, in un groviglio di rivoli e viottoli o di grandiose strade che segnano il percorso dei miti greci. Forse si può perdonare a Platone quel po’ di autoritarismo , quando, impegnato a forgiare la repubblica ideale, intima alle nutrici di non leggere i poeti ai bambini, poiché non sappiamo quali conseguenze essi potrebbero trarre dall’udire che gli dei sono i primi a disubbidire ai genitori, anzi a farne scempio; e ne hanno ben donde, dal momento che i genitori assomigliano all’orco cattivo. Del resto, aggiunge Platone, i miti sono bugie, e se non possiamo evitare di raccontarle ai fanciulli, per lo meno scegliamo bugie raccontate bene, che sono poi i suoi miti, conclude il divino con la modestia che lo contraddistingue, mentre quelli di Omero non sono che bugie raccontate male.
In un modo o nell’altro, in quei racconti il terrestre fa sempre una brutta fine: consegnato alla cura, alla preoccupazione, destinato a ridiventare polvere, nientificato da un onnipotente che ne decreta il nulla d’essere nell’istante stesso in cui lo crea.
Eppure c’è quel ricordo d’infanzia che, come le lenticchie di Demetrio, ci riconcilia con la madre terra, riconsegnandoci al più negletto e proustiano dei cinque sensi. Non la vista o l’udito dello spiritualista Platone, ma l’olfatto del sensista Condillac. Ognuno di noi potrebbe raccontarlo, offrendo il proprio contributo all’enciclopedia autobiografica degli econarratori.
Ma che cosa ci affascina nel ricordo di un’infanzia da terrestri, quando, piccoli e più vicini a Gea, ne assaporavamo con gusto intatto aromi e frutti?
Si direbbe una mortifera libidine, che induce a gettarci al più presto fra le braccia di un nemico potente ed invincibile. Siamo polvere, fango, argilla, terra: è vero. Siamo atomi, siamo omeomerie, siamo molecole, siamo insignificanti granelli di nulla. Forse immortali come gli atomi (eterni, assicura Democrito). Forse destinati a inimmaginabili ricomposizioni. Certamente irriconoscibili a noi stessi nell’ipotetica metempsicosi, a volte tentati di farla finita al più presto, prima che la nemica morte ci colga. Quel bambino che gioca col fango e si sporca di terra non è memoria che rinasce: è l’ignaro messaggero dell’oblio.
Qualcuno alla terra preferisce il cielo. Agli elementi corruttibili che compongono la Terra, fra i quali la terra è quello che tende più d’ogni altro verso il basso, qualcuno antepone l’etere, quintessenza delle incorruttibili sfere celesti. Non c’è solo l’anelito cristiano verso il paradiso, ma anche l’ascesa verso il settimo cielo dei chakra. I riti - a metà fra il business e il paganesimo - di eccentrici miliardari statunitensi intenzionati ad essere lanciati nello spazio infinito, una volta esalato l’ultimo respiro (muniti di cellulare, perché non si può mai sapere) sono parte di quel desiderio di immortalità a cui l’essere umano non riesce malgrado tutto a rinunciare.
Anche questa è religiosità, a modo suo. Allo stesso modo, forse, in cui Dewey, spirito pragmatico e americanamente positivo, annovera all’interno della storia, ossia dell’esperienza umana, la religione e la compagnia di assicurazioni: tutto è storia, tutto è esperienza, tutto è vita. In terra e in cielo, anche la morte.

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