LA TIMIDEZZA COME VIRTÙ. IL DUBBIO FILOSOFICO IN ARCHITETTURA - RELATORI: MARCO ERMENTINI, ANNA LUCIA MARAMOTTI POLITI

10.01.2011 21:00

 

Questo primo appuntamento dell’anno nuovo prevede una fotonarrazione di architettura timida: una piccola enciclopedia del dubbio nel gran deserto delle certezze, una raccolta di tracce, spie e paradossi descritti con minimi racconti che mandano in tilt i nostri luoghi comuni. Sono semplici strategie in pillole per ricordare che nella nostra epoca frenetica, distratta, seriosa e spietata c’è bisogno di ironia, pazienza, tolleranza, lentezza, gentilezza, umiltà e prima di tutto di timidezza. La timidezza non è una malattia ma bensì una virtù preziosa che ci insegna a maneggiare il mondo con delicatezza ponendoci molti dubbi e chiedendo permesso prima di agire. Così, in questo strano momento in cui il vecchio mondo sta morendo ma il nuovo non è ancora nato, il pensiero timido ci insegna a tentare una piccola rivoluzione che, nel mare della vita, può essere un vero e proprio pesce d'aprile.

Marco Ermentini nel suo ultimo libro, Architettura Timida, Nardini Editore Firenze 2010, ci presenta una nuova puntata della sua avventura chiedendoci se il nostro rapporto con il mondo debba essere affrontato continuando a praticare la violenza di uno schiaffo oppure con la stessa delicatezza di una carezza.

Dibattito

Data: 18.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: Un filo-sofo

Un dovere, ma anche un piacere scrivere alcune annotazioni a commento dell’opera Architettura timida, Nardini Editore, Firenze 2010. Un dovere perché Marco Ermentini, l’autore, è stato un mio “curioso” allievo. Un piacere perché in tale libro egli non nasconde (tutt’altro!) l’amore per la filosofia che da allora ha coltivato, un amore che è diventato col tempo una vera e propria passione.

Metto subito le mani avanti: non ho nulla da aggiungere nel merito rispetto a quanto ha già anticipato con competenza la prof. Anna Lucia Maramotti Politi (che cosa potrei dire su problematiche che esulano dal mio orticello?).

Mi preme sottolineare, invece, le suggestioni filosofiche di cui l’opera è straordinariamente ricca.

L’autore cita non pochi pensatori, in particolare dell’epoca classica (il più gettonato è Eraclito). Il suo – lo si coglie immediatamente – non è un vezzo, non è un tributo formale a dei guru del passato: lui i filosofi li fa rivivere, li attualizza.

E li fa rivivere con leggerezza. Anche con ironia.

È con leggerezza che affronta il tema della nostra costante precarietà (opportuna la citazione del noto adagio del cosiddetto filosofo del divenire). È con leggerezza che tocca “il significato più alto e profondo dell’essere”, dell’“essere che ci sta”, del “paradosso irrisolto dell’eternità”.

Temi nobili della metafisica che l’arch. Ermentini butta lì, en passant, come spunti di meditazione, stimoli per andare oltre la routine della quotidianità, oltre il pensiero unico imposto dai mass-media.

Di qui l’allarme per la “morte della critica” (un vero e proprio “fantasma che si aggira per l’Italia”) e l’appello a privilegiare “il dubbio nel gran deserto delle certezze”, a prendere le distanze da chi pretende di avere “la risposta in tasca”, anche quando “la tasca è bucata”.

Di qui l’invito a fare nostra la sapienza di Pirrone, vale a dire l’epoché, ovvero la sospensione del giudizio.

È questo il Leit-motiv dell’intera opera: non l’arroganza, non la volontà di potenza (trasparente il background filosofico), ma quell’“arte magica” che è l’atteggiamento di ascolto, la consapevolezza della nostra ignoranza, in ultima analisi la timidezza che “non è una malattia”, ma una virtù, la virtù di porci domande, la virtù della pazienza, della lentezza, dell’umiltà.

È questo il tesoro, la “vera ricchezza”: siamo ricchi quando non pretendiamo di adattare l’ambiente a noi; quando, invece che accrescere gli averi, diminuiamo - seguendo la lezione di Epicuro - i desideri; quando ci liberiamo dall’“ansia di competizione”; quando torniamo a guardare il mondo con gli occhi del bambino (che sono gli stessi occhi del filosofo); quando ci prendiamo il tempo di contemplare, di giocare; quando riusciamo a far nostra la virtù greca dell’eusebeia, cioè il pudore, il sacro timore.

Architettura timida, “l’incantevole libretto di Marco Ermentini” (come lo definisce il critico Lodovico Meneghetti), è un’enciclopedia tutta da gustare e, ricca com’è di perle di saggezza, tutta da meditare.

Mi permetto qualche considerazione a caldo.

Marco Ermentini sposa, sì, l’epoché di Pirrone, ma la sua sospensione di giudizio non ha nulla a che vedere con l’inattività: non è, infatti, da tempo impegnato su più fronti a condurre una battaglia culturale in cui crede?

Così, a mio avviso, il suo appello a privilegiare il “dubbio” è lontano anni-luce dal relativismo (uso il termine nella sua accezione peggiore): non è per affermare alcuni valori che Ermentini si batte con tenacia?

La virtù della timidezza, poi, che ci indica come una bussola, non significa per lui un ritrarsi, un rifugiarsi nel privato: non è, anzi, questa che lo conduce a gridare (pur nello spirito dell’eusebeia) a testa alta nell’agorà?

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