NOTE DI COMPRENSIONE DELLA FILOSOFIA EBRAICA - RELATORE: DON EMILIO LINGIARDI

14.03.2005 21:00

La riflessione razionale del popolo ebraico non è pienamente autonoma come quella occidentale, ma ha sempre dei riferimenti alla Bibbia.(Dt. 6,6 ss). Da Mosè Maimonide a Edith Stein, da Marx a Freud, dai maestri (Rashi) ai chassidim, da spinosa ai rabbini, è costante un riferimento alle Scritture, anche se gli interessati affermano di non credere.

Due possono essere i filoni della riflessione:

- Legge (torà) – popolo (am) – terra (heretz Israel)

E’ tipica delle scuole (ieshivà) rabbiniche con une forte tendenza fondamentalista, almeno dal 1979 (reazione a Khomeini, pensatori venuti dall’America con un influsso protestante carismatico): la ragione fondata sulla Bibbia a servizio del Grande Israele (uccisione di Rabin, questione di Gaza e Cisgiordania).

- Visione unitaria del reale: unità evolutiva cosmica – solidarietà nel bene e nel male tra cosmo e uomo; unità dell’uomo (è carne-bashar – è anima-nefesh). Relazione uomo-donna feconda (non religiosa); dimensione ludica dell’amore. Peccato come idolatria. Dio (Javhé) non metafisico (“sono quello che sono”), ma l’ “esserci”: ”io ci sarò sempre”.

Ultima riflessione dalla Sapienza: dal creato al Creatore (barà ebraico- ergazomai non pratto).

 

 

Durante la serata Lina Casalini leggerà alcuni passi della Bibbia.

Dibattito

Data: 23.06.2013

Autore: Luca Lunardi

Oggetto: La "questione culturale"

Mi è sembrato, pur nella loro pertinenza, che tutti gli interventi ascoltati durante l’ultimo incontro – a partire dalla relazione - addossino la responsabilità, morale e fattuale, della guerra e della possibilità della pace ai soli israeliani. Secondo me, ciò è profondamente ingiusto, sia dal punto di vista storico che etico.

Don Lingiardi ha insistito sul concetto che è una questione culturale ad essere prioritaria per costruire la convivenza, indicandosi la testa per sottolinearlo gestualmente, ed io sono totalmente d’accordo. I coloni feticisticamente attaccati alla terra, lo dico in modo un po’ brutale, mi fanno pena e ribrezzo. Israele avrebbe dovuto sgomberarli tanto tempo fa; onore, tuttavia, alla decisione democratica coraggiosa di agire. Ma proprio per lo stesso principio – l’abbandono di una certa forma mentis attaccata all’interpretazione letterale del testo sacro – mi ha stupito il silenzio mai interrotto (a parte un breve accenno) nei confronti dei responsabili della deriva di una parte allarmante della società palestinese, proprio in nome di un’aberrante interpretazione di un altro testo sacro.

Un tempo il martire era una persona che si faceva uccidere per un ideale veramente alto senza opporre resistenza. Oggi, ad opera di un’azione di indottrinamento scientifico ed alienante - economicamente sovvenzionato in misura largamente superiore e pervasiva di quanto non facciano i finanziamenti americani alla minoranza fondamentalista ebraica – si osa definire martire chi dà la morte a se stesso e agli altri, negando il valore della vita a figli di scimmie e maiali, credendo di meritare il paradiso. Questo è, succintamente, uno dei fondamenti di un nuovo totalitarismo che, in quanto a crudeltà, volontà di dominio e disprezzo dei valori umanitari trova un paragone solo nel nazismo. L’ultimo incontro poteva essere impostato in molti modi; se l’obiettivo era mettere in evidenza i condizionamenti culturali, allora esso è stato, secondo me, gravemente parziale.

Richiamare al dato di fatto che Israele è l’unico stato di diritto dell’intero Medio Oriente non è solo un leit motiv da sostenitori demagogici della democrazia, che vogliono sminuire le diversità culturali che non potrebbero portare quei territori a fotocopiare acriticamente la forma delle istituzioni occidentali. La differenza non sta in una presunta immunità delle società aperte nei confronti dell’esercizio della violenza, o in una sempre rispettata attenzione a certi valori di libertà e tutela dell’uomo che le fondano – valori disattesi pesano sulla loro storia, passata e presente, Israele compreso – ma nella capacità di svelare gli errori che le hanno sviate dall’interno, renderli evidenti, dibatterne e rimuoverli. Questo è ciò che distingue Israele dai suoi vicini. Pensare che Israele sia una tirannia militare, come in buona sostanza a volte trapela, è un’assurdità puerile, se la cessazione delle aggressioni ed il riconoscimento internazionale che sono le condizioni che farebbero cessare l’occupazione non si sono mai verificate (o solo in parte, per ciò che riguarda il secondo punto). Gli eserciti hanno l’ultima parola, come tristemente ha detto un ragazzo al dibattito? Ma senza un esercito, la società vitale e dinamica che si interroga in modo lacerante su come risolvere la questione coi suoi vicini sarebbe già scomparsa da tempo, ad opera di chi vorrebbe cancellare per sempre l’entità sionista per motivi pseudo-religiosi.

Molte altre considerazioni balenano nella mia mente, ma credo che il pensiero sia chiaro. Non pretendo certo di seguire una strategia argomentativa impeccabile, dal momento che, logica insegna, gli errori di Tizio non scompaiono semplicemente ricordando gli errori di Caio, anche se questi sono più grandi. Ma è un dovere rendere conto di entrambi, se la filosofia è amore per la verità. Solo un’ultima precisazione: non sono il difensore d’ufficio di Israele, il quale ha fatto e fa errori, e ne ha pagato e ne paga le conseguenze (una società aperta sotto attacco che finisce per usare metodi che contraddicono l’essenza stessa della democrazia - è il caso anche degli Stati Uniti). E lungi da me accusare il relatore di altre mancanze: il suo amore per la cultura ebraica è evidente (infinitamente superiore al mio). Detesto tuttavia la political correctness di chi biasima il muro con veemenza, e dimentica i corpi straziati delle persone uccise dai terroristi suicidi e da chi li sostiene, largamente più pericolosi e numericamente rilevanti dei ridicoli fanatici della Legge biblica (pur non dimenticando chi uccise Rabin).

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