RELATIVISMO CRISTIANO - ANTIRELATIVISMO LAICO. UN PERSORSO NELLA BIBLIOGRAFIA RECENTE - RELATORE: SILVANO ALLASIA

10.10.2005 21:00

La polemica sul relativismo è sembrata opporre anzitutto, in Italia, cristiani e laici: assolutisti i primi (Joseph Ratzinger, Marcello Pera), relativisti i secondi (Giulio Giorello).

A uno sguardo più approfondito, l’insieme delle posizioni appare però molto più articolato.

 

Nel campo della religione non mancano posizioni anti-dogmatiche che intendono il relativismo come la premessa necessaria della fede cristiana (Dario Antiseri) o insistono su un cristianesimo animato dalla vocazione irrinunciabile a una secolarizzazione che ne scioglie via via i contenuti dottrinali, compresi quelli che le gerarchie ecclesiastiche vorrebbero assoluti (Gianni Vattimo).

Sul versante laico emergono viceversa posizioni assai critiche nei confronti di correnti filosofiche (strutturalismo, ermeneutica, epistemologia post-popperiana) ritenute colpevoli di avere dissolto con troppa disinvoltura nozioni come “verità”, “oggettività”, “realtà”, spingendo molti ad affrettarsi verso la conclusione che «tutte le cose sono ugualmente possibili e tutte le opinioni, di conseguenza, legittime».

In sintesi: una natura umana esiste? Se esiste, quali discipline sono in grado di descriverla (le scienze empiriche, la filosofia, la religione)? E se siamo in grado di descrivere la natura umana, questa descrizione potrà davvero essere assunta come criterio – limite invalicabile, oppure stella polare – dell’etica? Oltre a riproporre il tema della relazione tra filosofia, scienza e religione queste domande riportano alla luce un’antica questione filosofica: qual è il nesso tra descrizioni e prescrizioni, tra fatti e norme?

 

 

PRESENTAZIONE COMPLETA DELLA RELAZIONE AL CAFFE’ FILOSOFICO DEL 10 OTTOBRE 2005 DA PARTE DEL RELATORE PROF. S. ALLASIA

 

Cristiani relativisti, laici antirelativisti.
Un percorso nella bibliografia recente.

 

La polemica sul relativismo è sembrata opporre anzitutto, in Italia, cristiani e laici: assolutisti i primi (Joseph Ratzinger, Marcello Pera), relativisti i secondi (Giulio Giorello). A uno sguardo più approfondito, l’insieme delle posizioni appare però molto più articolato.

Nel campo della religione non mancano posizioni anti-dogmatiche che intendono il relativismo come la premessa necessaria della fede cristiana (Dario Antiseri) o insistono su un cristianesimo animato dalla vocazione irrinunciabile a una secolarizzazione che ne scioglie via via i contenuti dottrinali, compresi quelli che le gerarchie ecclesiastiche vorrebbero assoluti (Gianni Vattimo). Interessante il fatto che mentre Vattimo, guardando alla secolarizzazione da una prospettiva religiosa, la interpreta come un processo sempre in cammino, mai concluso, che ogni epoca storica e generazione di credenti deve portare avanti, Jurgen Habermas e Joseph Ratzinger, confrontandosi sul terreno della politica e della teoria sociale, parlano ormai apertamente di società post-secolare, intesa come la società affermatasi dopo il 1989, nella quale non soltanto le religioni sopravvivono, smentendo le tesi illuministe che ne decretavano la futura scomparsa, ma acquistano un nuovo e imprevisto ruolo politico.

Sul versante laico emergono viceversa posizioni assai critiche nei confronti di correnti filosofiche (strutturalismo, ermeneutica, epistemologia post-popperiana) ritenute colpevoli di avere dissolto con troppa disinvoltura nozioni come “verità”, “oggettività”, “realtà”, spingendo molti ad affrettarsi verso la conclusione che «tutte le cose sono ugualmente possibili e tutte le opinioni, di conseguenza, legittime». Giovanni Jervis imputa al relativismo il carattere di vera e propria ideologia del nostro tempo, le cui conseguenze nefaste sono l’antiscentismo, l’irresponsabilità etica, il qualunquismo politico. Bernard Williams, con una complessa strategia argomentativa, ritiene di poter dimostrare che il riferimento a una verità indipendente da opinioni soggettive è essenziale in una comunità che intenda salvaguardare e “far funzionare” la cooperazione sociale. Perfino Richard Popkin, il più influente studioso dello scetticismo nel mondo anglosassone, egli stesso su posizioni scettiche, si dichiara turbato dall’attacco indiscriminato che il postmodernismo relativista ha portato alla razionalità scientifica e che rischia di sfociare in “una sorta di disastro intellettuale”.

Nell’orizzonte del dilemma relativismo/anti-relativismo può essere inquadrato anche il dibattito intorno alla natura umana. Dopo che per decenni si è insistito sulla costituzione “tutta culturale” di uomini e donne, i quali per parte loro non avrebbero alcuna specifica natura (una linea interpretativa che ha i suoi capostipiti in Protagora, Pico della Mirandola, Nietzsche, Gehlen), la filosofia torna a interrogarsi sul tema, confrontandosi con la biologia, le neuroscienze, le scienze cognitive. Un esempio di questo nuovo approccio è il numero monografico dedicato all’argomento dalla rivista Micromega. In un dibattito del 1971 tenutosi a Eindhoven, in Olanda, il cui testo è soltanto da pochi mesi disponibile in traduzione italiana, Michel Foucault e Noam Chomsky si confrontarono sul tema senza trovare alcun accordo e forse neppure comprendersi. Chomsky avanzò la tesi di una innata e creativa struttura cognitiva umana, che permette ai bambini di produrre frasi nuove e complesse a partire da materiali rozzi e poveri (gli esempi linguistici offerti dagli adulti) e propose di assumere questa creatività naturale come criterio della lotta politica: «Il bisogno di attività creativa, di ricerca creativa, di libera creazione […] rappresenta un elemento fondamentale della natura umana. Se è così, ciò vuol dire una cosa ovvia: una società più giusta dovrebbe massimizzare le possibilità di realizzare questa fondamentale caratteristica umana». Foucault gli obiettò che orientare la lotta politica in base a un concetto di natura umana elaborato - e quindi funzionale - proprio all’ordine sociale che si intende rovesciare è perlomeno incongruente.

La strategia argomentativa di Chomsky non è diversa da quella utilizzata oggi dalla Chiesa cattolica per respingere ricerca genetica, fecondazione assistita, matrimoni tra persone dello stesso sesso, tutte pratiche ritenute lesive di una (presunta?) natura umana. Ma una natura umana esiste? Se esiste, quali discipline sono in grado di descriverla (le scienze empiriche, la filosofia, la religione)? E se siamo in grado di descrivere la natura umana, questa descrizione potrà davvero essere assunta come criterio – limite invalicabile, oppure stella polare – dell’etica? Oltre a riproporre il tema della relazione tra filosofia, scienza e religione queste domande riportano alla luce un’antica questione filosofica: qual è il nesso tra descrizioni e prescrizioni, tra fatti e norme?

 

BIBLIOGRAFIA

  • M. Pera – J. Ratzinger, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam, Mondadori, 2005, pp. 134, € 7,70.
  • J. Ratzinger, L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture, Introduzione di Marcello Pera, Cantagalli, 2005, pp. 143, € 8,80.
  • G. Giorello, Di nessuna chiesa. La libertà del laico, Cortina, 2005, pp. 79, € 7,50.
  • D. Antiseri, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano, Rubettino, 2003, pp. 180, € 10,00.
  • D. Antiseri, Relativismo, nichilismo, individualismo, Rubettino, 2005, pp. 86, € 7,00.
  • G. Vattimo, Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Garzanti, 19982, pp. 107, € 6,20.
  • R. Rorty, G. Vattimo, Il futuro della religione, Garzanti, 2005, pp. 93, € 12,00.
  • J. Habermas, J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo, Marsilio, 2005, pp. 93, € 7,50.
  • G. Jervis, Contro il relativismo, Laterza, 2005, pp. 166, € 10,00.
  • B. Williams, Genealogia della verità. Storia e virtù del dire il vero, Fazi, 2005 [ed. orig. 2002], pp. 298, € 29,00.
  • R. H. Popkin, A. Stroll, Il dovere del dubbio. Filosofia scettica per tutti, Il Saggiatore, 2004 [ed. orig. 2002], pp. 320, € 19,50.
  • “Micromega”, Almanacco di filosofia, 4/2005, pp. 264, € 12.00.
  • N. Chomsky, M. Foucault, Della natura umana. Invariante biologico e potere politico, Derive Approdi, 2005, pp. 143, € 12,00.

Dibattito

Data: 23.06.2013

Autore: Luigi Maglio

Oggetto: RELATIVISMO E VERITA’

Nell’ottobre dello scorso anno moriva il filosofo Jacques Deridda, uno dei più decisi ed incisivi esponenti della cultura del sospetto ( altrimenti detta pensiero debole o pensiero corto).

Nato in Algeria da famiglia ebraica, naturalizzato culturalmente in Francia, Deridda aveva teorizzato il “ decostruzionismo” come metodo di rilettura di tutta la produzione del pensiero umano, scardinandone le regole di gioco: era messa in dunque la nostra capacità di percepire il “là fuori”, le cose nella loro realtà propria ed oggettiva poiché esse “erano” e contemporaneamente “erano dette” dalla parola che le indicava.

Ora, la parola è condizionata dal tempo e dallo spazio : il che concede ad ognuno legittimamente di rileggere nel suo “hic et nunc” il reale. Nulla quindi di dato , o meglio di dato per sempre e per tutti, fine della immutabilità , del permanere di cose e significati. Relativismo, dunque.

Due mesi prima di morire ( sapeva di essere alla fine per un tumore) rilasciò un’intervista apparsa su “Le Monde” nell’agosto 2004.

Fra le altre cose, all’intervistatore che gli chiedeva , citando una sua opera, se ora si sentisse una persona che finalmente aveva imparato a vivere, rispondeva: ”...no, non ho mai imparato a vivere. Non del tutto! Imparare a vivere dovrebbe voler dire imparare a morire, a prendersi in carico , per accettarla, la mortalità assoluta ( senza salvezza, né risurrezione, né redenzione , né per sé, né per l’altro). Da Platone in poi, ecco l’antica ingiunzione della filosofia: filosofare è imparare a morire.

Io credo a questa verità senza obbedire ad essa. Sempre meno. Non ho imparato ad accettarla , la morte. Siamo tutti dei sopravviventi in rinvio….”.

Per la sua parabola teoretica, mi meravigliai di trovare parole come “credo” e “verità”.

E’ proprio a Derida che Marcello Pera, nella veste di filosofo della scienza, fa riferimento in un volume scritto a quattro mani con l’allora cardinal Ratzinger. Il libro nasceva da una casualità : due interventi tenuti, nel maggio 2004, rispettivamente dal prelato presso la sala del Capitolo del Senato, e dal senatore presso l’Università Lateranense ; per la vicinanza delle tesi espresse , seguì un carteggio fra i due ed infine vide la luce il volume con l’allusivo titolo “ Senza radici” ed il più esplicito sottotitolo ” Europa, Relativismo, Cristianesimo, Islam” (A. Mondatori Editore)

Pera richiama la posizione del filosofo francese quando , dopo aver illustrato una matrice del relativismo contemporaneo, quella del “ contestualismo”, cita la seconda fonte del fenomeno : appunto quella “decostruttivista”; e ne indica il limite allorché davanti a tragedie come l’11 settembre o la propria morte anche il decostruttivista più impenitente deve ammettere che l’evidenza dei fatti ci urge ad una fede (sic) in scelte a prima vista impossibili ( il riferimento è ad un intervento di Deridda successivo all’ecatombe statunitense)

Certo : non è necessariamente la fede cristiana o qualche altra fede rivelata. Anche una semplice fede “morale”, genericamente morale , da ragion , appunto, pratica, per dirla con Kant.

I fatti e gli eventi ci inducono a scegliere, praticamente ed ineluttabilmente.

Il relativismo, come alibi per rimandare o negare la necessità di una decisione, non paga.

Gli fa eco, non solo nel volume in questione , ma anche in interventi recentissimi che hanno colpito l’opinione pubblica, le parole dell’allora ( per una manciata di ore) card.Ratzinger.

Nella Missa pro eligendo romano pontifice celebrata all’apertura del conclave dal quale sarebbe uscito papa, il prelato tedesco riprendeva una tesi a lui cara, già enunciata nel 1996, ripetuta da allora più volte che vede nel relativismo il vero problema dell’uomo moderno e del cristiano contemporaneo: “ …il relativismo, cioè il lasciarsi portare qua e là da qualsiasi vento di dottrina, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni . Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura il proprio io e le sue voglie”, sosteneva nell’omelia della liturgia citata.

E nel volume in questione : ” Negli ultimi tempi , mi capita di notare sempre di più che il relativismo, quanto più diventa la forma di pensiero generalmente accettata, tende all’intolleranza, trasformandosi in un nuovo dogmatismo “.

Vorrei rimarcare una piega del discorso : quella inerente la “dittatura”, il “dogmatismo”.

Pur partendo da formazioni culturali e da convinzioni personali diverse , Pera e Ratzinger si trovano d’accordo. Da una parte Pera denuncia nell’Occidente lo smarrimento del senso del bene e del male nel giudizio critico ed etico, a favore di relativismi attendisti che sperano che ”i guai spariranno da soli”, una posizione orfana della propria memoria storica intesa come ricchezza.

Dall’altra Ratzinger rincara la dose : “L’Occidente non ama più se stesso: della sua storia ormai vede soltanto ciò che è deprecabile e distruttivo, mentre non è più in grado di percepire ciò che è grande e puro”.

Per ambedue la radice di tutto sta nell’imperante relativismo che toglie forza ad ogni presa di posizione.

Ambedue giudicano negativamente, anche se da punti di vista eterogenei, la mancata citazione delle radici cristiane nella costituzione europea, ultima ostensione dell’arrendevolezza culturale dell’Occidente.

Condivido ovviamente l’attenta analisi : quanto oggi il concetto di verità sia individualizzato è esperienza quotidiana per tutti. E’ un tratto che genera quell’ambiguità di cui già altre volte abbiamo detto, che spesso e volentieri mistifichiamo con la complessità del presente, valore questo, che invita invece ad una ricerca ed ad uno sforzo critico sempre più faticoso e puntuale, vera punta di diamante dell’educazione e della formazione delle nuove generazioni, quando ad esse vogliamo davvero insegnare e non invece solo addestrarle.

Per riprendere i termini di “dittatura”, “dogmatismo” ( in altra parte “super-dogma”) riferiti al relativismo, vorrei semplicemente proporre un passo in più.

Sono termini pesanti, che dicono sostanzialmente la messa tra parentesi della nostra capacità critica a favore di un pensiero unico che si manifesta con la forza o con il un fascino che annienta l’individualità.

E forse l’atteggiamento più subdolo e culturalmente veicolato dal relativismo, in tal direzione, non è tanto il fatto che non si possa più sostenere che esista un’unica verità, quanto il fatto che del problema non abbia più senso parlare.

La storia del pensiero ( dalla maieutica socratica all’oggi) è costellata per fortuna da dialettici confronti : non farebbe assolutamente paura riederne ( perché già fatto altre volte) uno concernente il problema della fondazione veritativa. Ma forse non è questo che si vuole. Nella società del rapido accesso alle conoscenze vi è anche il tratto del rapido abbandono delle stesse per rincorrerne altre. Su questa esigenza ( ricordiamoci che, diversamente dal passato, oggi non mancano le conoscenze, anzi: viviamo quotidianamente lo tsunami dell’informazione; manca semmai la capacità o l’intenzione di collocarle, selezionarle, sottoporle a giudizio critico, comprenderle davvero) gioca silenziosamente la cultura contemporanea con alcuni suoi accattivanti tratti.

Uno di questi è che , proclamato senza giustificazione o confronto dialettico , la fine della verità , si veicola tale assunto infondato sui canali dell’informazione , dei comportamenti, delle proposte di vita o di interpretazione della vita, con una rapidità, con una efficacia, con una ripetitività così martellanti che l’uomo mai ha conosciuto da farla diventare cosa assodata dal senso comune. Inconsciamente ciascuno di noi si trova poi nella quotidianità a diventarne ambasciatore, e spacciamo per problema risolto ciò che invece non è stato nemmeno posto.

Non che manchi il dolo , spesso e volentieri : è ovvio, la verità a misura di ciascuno fa comodo. Ognuno è legittimato a stare nel proprio giardino : s’impegnerà ( patto vicendevole) a non fare invasione di campo. E’ l’anticamera dell’individualismo più sfrenato.

Qualcuno dice anche che il mancato confronto ( sul criterio fondativo, sul meglio , sul peggio , sul giusto, sull’ingiusto, sul valore, sul disvalore ecc.) è foriero di un clima di pace (sic), dove le coesistenze ( da cum-exsisto, ma c’è ancora un cum?) eviteranno frizioni. Meglio tacere, quindi, che relazionarsi.

In un momento della storia dove i popoli e le religioni si dovranno incontrare sempre più e necessariamente, viste le ridotte distanze del villaggio globale e problemi sociali ed ambientali che richiedono il necessario fattivo concorso di tutti, siamo certi che questo sia l’atteggiamento migliore per un accrescimento comune di rispetto, attenzione, integrazione, benessere, civiltà?

Luigi Maglio
Ufficio Studi e Ricerca ACLI Lombardia


** L’articolo è apparso sul quotidiano “ Il Cittadino” di Lodi il 25. 05 u.s.

Data: 23.06.2013

Autore: Adriano Tango

Oggetto: IL DIALOGO CON I CATTOLICI? È IMPOSSIBILE!

Concordo con Piero Carelli sul concetto di relatività dell'etica. Ritengo pure che il “valore uomo” sia qualcosa di costruito, specie in senso etologico.

Non concordo, invece, sulla possibilità di un dialogo tra “laici” e “cattolici”, tanto più su problematiche bioetiche.

Io credente non cattolico cristiano, per qualificarmi, posso dialogare con altri variamente orientati ma non asserviti, ma con i cattolici, no: loro minacciano, interferiscono pesantemente nella libertà di pensiero altrui, forti di un vissuto infantile portato nell'inconscio. Con tutto il rispetto per i convinti "combattenti della posizione cattolica" ritengo, quindi, che le due posizioni non possano essere messe alla pari su due piatti della bilancia. Pur stimando i cattolici credenti convinti, essendo amico di tanti di loro "cervelli di primo ordine", Preti o Credenti militanti e rispettando la loro scelta (libera o un iniziazione infantile da cui non si sono mai ripresi?), non posso non vedere che questi "cervelli di primo ordine" arrestano il dialogo (anche con se stessi) entro un certo limite, come non posso non vedere la loro pesante ingerenza in etica: i loro esperti in bioetica rigirano argomenti tanto cavillosi che avrebbero fatto rabbrividire Guglielmo da Occam (quello del 300 del rasoio dell'evidenza dei fatti).

Dicevo: minacciano. Non è forse vero? Non si sono appena riuniti i loro vertici per decidere eventuali provvedimenti rivolti ai politici sostenitori di leggi inique secondo la loro morale sempre più dissonante con il sentito comune?

I cattolici hanno un limite strutturale: pongono la fede e l'etica unitamente nella categoria dei dogmi, e non si schiodano da lì. Come si può ragionare con loro?

Il vissuto di razza è la fonte stessa dei nostri comportamenti ed è prezioso, perchè anche il dinamismo evolutivo sociale deve avere un volano che lo moduli, ma la forbice dei comportamenti si sta sempre più allargando e loro tentano semplicemente di tirare il freno in nome di Dio.

Ora, la loro stessa fede in un Dio è un bene culturale relativo che è stato sottoposto ad evoluzione rintracciabile nelle fonti almeno negli ultimi seimila anni, non un assoluto. Dio, in altre parole, è una produzione terrena dell'uomo, non qualcosa di trascendente: ecco perché il dialogo non può mai decollare. Spesso mi accade di cercare un terreno comune, ma guai poi se cerco di far capire che non mi considero comunque un ateo.

Loro adesso vogliono fermare il processo cristallizzando i dogmi, cosa innaturale.

È indubbio che così soccomberanno, ma intanto hanno due responsabilità:

1 ) ci fanno perdere tempo in un'epoca che richiede risposte a problemi rapide come palle da ping pong,

2) rischiano di lasciare dopo di sé il vuoto o bislacche credenze non accreditate, mentre dovrebbero collaborare alla nascita di una fede adeguata al domani, che all'umanità farebbe comodo, pur non essendo un'esigenza primaria come dimostrato dalla perfetta salute mentale di popolazioni evolutesi senza un Dio né Cristiano né Musulmano.

Nonostante tutto, comunque, devo prendere atto che i cattolici sono gli unici a combattere costantemente in prima fila con sistematicità e se scomparissero loro, per le singole persone resterebbe un bel vuoto. Penso al terzo mondo: se si affrontasse il problema con mentalità laica, ma anche con la loro tenacia, in due generazioni si risolverebbero problemi di fame e sviluppo.

Data: 23.06.2013

Autore: Patrizia de Capua

Oggetto: Nonsolobibliografia

La relazione di Silvano Allasia mi è parsa profonda e seriamente documentata. L’onestà intellettuale e l’acume ermeneutico del relatore credo siano risultati evidenti a tutti. Così pure l’ampiezza delle letture e la capacità di renderne conto in modo non banale, ma con sguardo sempre critico, benché rispettoso delle differenti posizioni.

In particolare ho trovato assai interessante la proposta, da parte di qualche generoso spirito cristiano, di comunità religiose di tipo monastico che offrano un esempio di vita a credenti e non credenti: una sorta di utopismo analogo a quello dei socialisti di fine Settecento. Come dire: perché non smettiamo di predicare e proviamo a mettere in pratica i nostri principi? Così, forse, qualcuno ci darà credito e magari finirà col condividere le nostre convinzioni. All’opposto, e simmetricamente, efficace ed opportuno è risultato, a mio modo di vedere, il riferimento alla tradizione dell’ateismo virtuoso, da Bayle a… già, a chi? chi oggi può considerarsi erede di quella tradizione? Chi oserebbe paragonare la propria condotta di vita a quella di Spinoza? Forse Habermas, con la sua etica del dialogo? Confesso che lo scambio reciproco fra ragione e fede, volonterose nel soccorrersi a vicenda, per evitare l’una il tecnicismo e l’altra il fanatismo, evoca nella mia mente l’immagine di un lezioso minuetto, durante il quale i ballerini si rivolgono sguardi amorevoli e sdolcinati, pronti a sferrarsi alle spalle, allo svanire dell’ultima nota, un colpo a tradimento.

Vorrei segnalare un itinerario alternativo, magari meno edificante, ma non privo di fascino, orientato, da un lato, in senso logico-scientifico, e dall’altro in senso storico-morale.

Il primo è quello della matematica di un autore decisamente brillante: Piergiorgio Odifreddi, impegnato da anni in un’ infaticabile lotta contro ogni forma di superstizione, categoria secondo lui molto ampia, tanto da inglobare, in qualche modo, anche la religione. In particolare, dopo Le menzogne di Ulisse, piuttosto teso a smascherare le fallacie della logica che a celebrarne i fasti, Il matematico impertinente si presenta dapprima con un “non è vero che non possiamo non dirci cristiani” (e questo l’avevano già sostenuto, prima di lui, per lo meno Bertrand Russell e Oriana Fallaci, sia pure da differenti prospettive), e che se mai non possiamo non dirci tecnologici. Ma poi, nell’“Intervista a Gesù”, assume una posizione simile a quella dei molti che, come faceva notare Silvano, distinguono nettamente il messaggio di Cristo dalla religione istituzionalizzata, a tutto vantaggio del primo.

Il secondo percorso è il dissacrante Trattato di ateologia di Michel Onfray, lettura per certi versi sconvolgente. Si tratta di un testo che può venire collocato nell’ambito della ricchissima letteratura libertina francese e italiana; probabilmente anche gli spagnoli hanno molto da insegnare in proposito, ma purtroppo non li conosco abbastanza: prometto di studiarli in futuro. Ciò che però rende Onfray più inquietante, ad esempio, del libertino de Sade è che il paradosso e l’eccesso della scrittura di quest’ultimo pone il lettore nella disposizione d’animo di non prendere sul serio ciò che legge, come se si trovasse di fronte all’iperbole di un bambino capriccioso e fanfarone. Viceversa, Michel Onfray parla in tono sì deciso, ma pacato, e argomenta con limpidi richiami alla storia e alla filosofia. Così, in un linguaggio da Nietzsche che non ha bevuto, annuncia la morte dello stesso ateismo, che lascerà il posto a un ateismo postmoderno (per motivi storici mancano parole adatte a designare, se non in negativo, le tesi dell’ateo), che abolirà non solo la teologia, ma anche quella scienza che pretenda di presentarsi come il nuovo assoluto. Dunque, né Tommaso d’Aquino, né Auguste Comte. Se mai Jeremy Bentham e John Stuart Mill, che “innalzano costruzioni intellettuali qui e ora, mirano a edifici modesti, sì, ma abitabili: non immense cattedrali invivibili, belle da vedere – come gli edifici dell’idealismo tedesco – ma impraticabili, bensì caseggiati in grado di essere realmente abitati”. A Onfray va fra l’altro riconosciuto il coraggio di non arrestarsi di fronte a nessun tabù, neppure quello di chi teme di venire confuso con antichi e odiosi persecutori, quando afferma di non sentirsi costretto, dopo l’11 settembre, a una scelta di campo per così dire obbligata fra religione ebraico-cristiana o musulmana, poiché “fra i tre monoteismi, non scegliere è legittimo”.

Non sono ottimista su questo argomento. Non credo di fare del terrorismo intellettuale, se noto, nel mondo odierno, inquietanti segnali non solo di intolleranza, ma anche di censura. Quali saranno i moderni autodafè? Quale condanna verrà inflitta a chi difende i cari vecchi valori illuministici della libertà di pensiero? Forse (nella migliore delle ipotesi) l’oblio mediatico, l’indifferenza non come suprema categoria etica (vedi Moriggi), ma come vera e propria damnatio imaginis, inedita versione dell’antica damnatio memoriae, in una società governata dalla sovraesposizione e dall’idiozia delle isole dei famosi. E nella peggiore?

Data: 23.06.2013

Autore: Piero Carelli

Oggetto: W RATZINGER!

Una caduta allarmante di tensione etica

W Ratzinger!

Come, anche tu tra i laici “devoti”? Anche tu tra i “camaleonti” alla Pera? No: nessuna conversione sulla via di Damasco. E… allora? Una sintonia con un papa “intellettuale”? Neppure. Non è il relativismo filosofico che mi preoccupa, ma la sua degenerazione: il qualunquismo (come afferma bene Jervis). Mi preoccupa (come educatore e come cittadino) la caduta allarmante di tensione morale che si riscontra soprattutto (ma non solo) nelle nuove generazioni. La crociata contro la dittatura del relativismo punta a riscoprire il primato dell’etica? Sia benvenuta! Non mi interessa più di tanto chi la guidi: un religioso o un laico. Non è in discussione qui la “religione”, ma qualcosa di più elevato, qualcosa che tocca tutti, credenti e “laici”.

Una “tradizione” da cui liberarci in nome dei nuovi “idoli”?

Una crociata in nome di valori “assoluti”? Non esistono valori “dati” - tanto meno “rivelati” -, né inscritti nella natura: i valori sono “costruiti” dall’uomo (piaccia o non piaccia!). Sono quindi… umani. Umani nel senso che valgono universalmente? Popoli diversi hanno costruito i loro valori sulla base di categorie culturali differenti. Il relativismo dei valori è un “fatto” (come è un fatto – per lo più - all’interno degli stessi popoli). E allora? Intoniamo un peana all’equivalenza dei valori, al… qualunquismo? Ma perché mai? Non viviamo in un mondo “platonico”, al di fuori della storia, ma apparteniamo ad una precisa tradizione europea e occidentale. Non è qui il caso di entrare nel dibattito sulle “radici” dell’Europa, sulla sua “presunta identità” (tutti i popoli sono “meticci”). Un dato, tuttavia, è certo: alcune culture hanno segnato più di altre la storia europea: dal pensiero classico al Cristianesimo, dall’Umanesimo all’Illuminismo. Sono i valori maturati in queste culture che costituiscono la nostra “tradizione”. Una tradizione da cui dobbiamo liberarci in nome di nuovi “idoli” (spesso più luccicanti) quali la tecnologia fine a se stessa, il “libero” mercato, il consumismo, l’edonismo? Ma perché mai? Perché non dovremmo salvaguardare il primato dell’etica sulla tecnologia? Perché non dovremmo salvaguardare il primato della etica sulla politica? E perché non dovremmo salvaguardare il primato della politica sull’economia?

È questo – a mio avviso – il senso profondo dell’accorato appello di papa Ratzinger: un forte monito a riscoprire i nostri valori occidentali ed a difenderli contro gli attacchi dei qualunquisti più o meno mascherati.

Non mi interessa qui – ripeto – indagarne le radici cristiane (magari non cattoliche) o anti-cristiane (meglio anticlericali). Un dato è certo: noi abbiamo alle spalle un patrimonio di valori preziosissimo. Nello stesso tempo, però, viviamo sotto il bombardamento di nuovi modelli culturali (provenienti in buona parte dagli Usa), modelli che, grazie alla potenza dei mass-media, ci vengono sottoposti con una forza talvolta superiore rispetto a quella esercitata dalla stessa tradizione. Possiamo rinunciare ai “nostri” valori in nome dei relativismo dei valori?

L’Europa: sempre più una… colonia americana?

L’Occidente – sottolineano Ratzinger e Pera – non si ama. È vero? Forse, sì. È l’Europa che rischia di più perché il suo patrimonio non ci rende secondi a nessuno, nemmeno alla “religiosa” America. È questa ricchezza di valori “umanistici” che rischiamo di perdere. È vero o no

che stiamo sempre più diventando una creatura a immagine e somiglianza degli Usa, vale a dire a immagine e somiglianza di un modello di capitalismo che fa sistematicamente violenza alla dignità umana e che accresce progressivamente il gap tra gli straricchi e i poveri?
che anche in Europa la categoria dell’“avere” sta eclissando la categoria dell’“essere”?
che il concetto di “bene” sta sempre più scivolando nel concetto di “utile” (spesso utile “privato”)?
che l’eticamente lecito sta sempre più coincidendo con il “tecnologicamente possibile”?
che il valore dell’“individuo” (radicato nel filone puritano) si sta sempre più affermando in netto contrasto con il diritto di altri e in barba al valore della solidarietà?
che i “valori” sono sempre più dettati dalle grandi “corporations”?
Non è dunque da prendere in massima considerazione chi ci invita a riscoprire il meglio della nostra tradizione, ad “amarlo”, a difenderlo con forza, magari esportandolo (non con la forza delle armi ma con la forza della testimonianza)?

È davvero impossibile affermare il “primato dell’etica”?

È l’uomo il “valore” supremo: ogni uomo (anche il più indifeso, il più… diverso). Non è intorno a questo valore che dovrebbero ruotare tutte le scelte, dalla politica all’economia?

Una battaglia di retroguardia, tipica dei laudatores temporis acti? Una battaglia contro i mulini a vento perché – al di là della nostra buona volontà – il mondo è sempre più creato a immagine e somiglianza del “dio mammona”?

L’impresa è di sicuro ardua. Potrebbe essere considerata addirittura… patetica. Ma… guardiamo un attimo indietro. Le migliori pagine della nostra storia europea non le abbiamo scritte con in mano la bandiera dei valori (diritti, doveri, laicità dello Stato…?) E non è di tali valori che abbiamo permeato la nostra migliore attività politica? Non abbiamo cioè anteposto l’etica alla politica e la politica all’economia?

È davvero impossibile riaffermare il primato dell’etica? È davvero impossibile “governare” l’economia sulla base di valori “umani”?

Un’impresa… titanica

L’impresa – lo ripeto – è ardua. Anzi, titanica se consideriamo che il modello economico imperante è oggi tendenzialmente diffuso “su scala planetaria” e che la politica è ferma (o quasi) all’ambito “nazionale”. Un’impresa, tuttavia, a cui non possiamo permetterci di rinunciare. Iniziando da quel cantiere aperto che è il processo di integrazione europea. È davvero utopico pensare ad un’Europa caratterizzata dal primato dei “valori” - dalla solidarietà alla qualità della vita -? È davvero utopico realizzare il “sogno europeo” prospettato da J. Rifkin nell’omonimo libro? È davvero utopico pensare ad un’Europa in cui la stessa ricerca scientifica sia orientata dall’etica?

L’etica: un bavaglio alla ricerca scientifica?

Ma… in questa logica – si potrebbe obiettare – non si tornerebbe ad imbavagliare la scienza, spazzando via la sua conquistata “autonomia”? Non si tornerebbe sotto le grinfie dei moralisti bacchettoni come al tempo della ierocrazia calvinista di Ginevra? Non si subordinerebbe la scienza alle chiese che si propongono come autentiche interpreti dei valori morali?

Nessun ritorno al passato. La laicità dello Stato è un valore irrinunciabile (contro qualsiasi tentazione fondamentalista), anche nello scenario della società post-secolare ben delineato da Silvano Allasia nella sua “magistrale” relazione del 10 ottobre u. s. Nessun ayatollah, di conseguenza, può e deve imporre valori allo Stato. Nessun Concistoro. Nessun Consiglio notturno alla Platone. A guidare la scienza non può che essere la “comunità dei cittadini”: sono questi che costituiscono lo “Stato” e sono questi che devono fissare le regole per evitare la violazione dei diritti umani. Ma il… “dialogo” sui valori (come auspicano sia Ratzinger che Habermas) dovrà esserci: anche tra i “credenti” – in quanto “cittadini” e i loro rappresentanti; anche tra le “associazioni” - quindi le stesse Chiese – e il parlamento. Un’indebita occupazione di campo da parte degli ecclesiastici? Perché mai? Perché mai i credenti – individualmente o associati – non dovrebbero sostenere con forza e a voce alta i “valori” in cui credono, tanto più se argomentati con una “logica umana”?

Una religione “nascosta” nell’interiorità della coscienza?

Perché mai la religione dovrebbe essere “nascosta” nel privato della coscienza? La “fede” – è vero – è un fatto privatissimo e, in quanto tale, non può e non deve entrare in parlamento, ma… perché i parlamentari credenti non dovrebbero sostenere con argomentazioni razionali i loro valori? E perché mai i cosiddetti “laici” dovrebbero avere paura dei pronunciamenti delle Chiese? Il “dialogo” non può che essere fecondo. Un dialogo, naturalmente, a 360°. Nel campo dell’etica non vi è nessuno che può vantare un monopolio: accanto ad autorevoli tradizioni “religiose” vi sono tradizioni, altrettanto autorevoli, in campo “laico” (tanto per semplificare).

Un’Europa senza “valori” è un’Europa senz’anima

Ben venga, quindi, il “dialogo”: un dialogo profondo, senza pregiudizi, un dialogo in cui gli interlocutori non si guardano in cagnesco (come nella campagna referendaria sulla procreazione assistita), ma attenti a cogliere il “meglio” degli altri “punti di vista”. Solo un dialogo del genere può spianare la strada al parlamento (l’unico organismo ad avere titolo, in uno Stato laico, a decidere erga omnes e nel rispetto di tutti) perché pervenga al livello più elevato di “mediazione” tra valori.

Un dialogo – ripeto – a 360°. Forse scopriremo che le varie tradizioni hanno in comune più di quanto le differenzia. Forse scopriremo – sul terreno dell’etica – di avere molto in comune con la stessa tradizione islamica (si legga il bel libro di Magdi Allam Vincere la paura). Forse scopriremo che la scienza (al di là delle rappresentazioni semplicistiche del “fallibilismo” popperiano) ha qualcosa da dire a tutti sulla “natura umana”. Forse scopriremo che la stessa ricerca scientifica potrebbe offrire degli input per ridiscutere il “valore” (“conquista di civiltà”?) dell’aborto.

L’Europa, senza “valori”, muore prima ancora di nascere. Un’Europa senza valori è un’Europa senz’anima: un mercato egemonizzato dalle multinazionali e basta. È troppo (tipico delle “anime belle”?) aspettarsi oggi un confronto alto sui valori?

Crema, 21 ottobre 2005

Piero Carelli
(un laico “non devoto”)

Data: 23.06.2013

Autore: Tiziano Guerini

Oggetto: Breve considerazione

Si potrebbe pensare che una comunicazione basata sulla presentazione di una bibliografia – per quanto ragionata- non presenti molti spunti di dibattito.

Così non è stato nella serata del caffè filosofico del mese di ottobre: c’è stato dibattito, dopo, oltre che attenzione durante il documentato e interessante intervento iniziale.(di questo sono grato all’amico Silvano)

Il titolo della serata era chiaramente un po’ provocatorio: di solito è il fatto religioso che si accompagna alla affermazione dell’assoluto; mentre il relativismo è laico. La relazione del prof. Allasia ha invece documentato che è (relativamente) vero anche il contrario.

Ne traggo lo spunto per una riflessione che accomuna la dimensione religiosa con le convinzioni laico-scientifiche: entrambe appartengono, sia pure in modo diverso, alla “fede”- cioè a quelle affermazioni in cui si crede “senza averne la prova”, dove questa espressione non si riferisce alla constatazione “sensibile” ma a quella dimensione della ragione dove solo l’incontraddittorietà costituisce appunto “prova”, cioè la dimensione della filosofia.

Che la religione sia fede, è un fatto esplicito (anche se a volte qualcuno finge di non accorgersene); così come – sia pure in tempi più recenti – è ormai convinzione sufficientemente diffusa che la scienza sia il luogo delle certezze “provvisorie”.

Tutto relativismo, allora?

O invece qui si apre lo spazio per una ripresa innovativa della conoscenza filosofica? La quale – o apre alla dimensione dell’assoluto, oppure non è -!

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